- Le ultime stagioni hanno visto le edicole e le librerie italiane riempirsi di riviste di ogni tipo: letterarie e culinarie, di geopolitica e di sport.
- La rinascita può dipendere dal fatto che queste nuove uscite spesso concentrano ogni numero su un argomento specifico, sviscerandolo e spiegandolo al lettore.
- E non è nemmeno da sottovalutare il fascino della carta, non solo come feticismo nostalgico, ma anche perché per la gioia di leggere in maniera non sequenziale e di sentirsi parte di una comunità a distanza.
Ci sarebbe da capire perché proprio nelle ultime stagioni le edicole e le librerie italiane si siano riempite di riviste. Riviste di ogni caratura e di argomento variegato. Culinario, letterario, geopolitico, sportivo: per dirne qualche tipo. È inelegante, però, far promesse che non si possono mantenere, e allora vorrei chiarire fin da adesso che, persino per coloro che arriveranno a leggere l’ultima riga di questo articolo, la domanda rimarrà una domanda inevasa.
E se sarà stato per colpa del fatto che è una question mal posée o perché di mal posée qui c’è innanzitutto la persona a cui è stato chiesto di rispondere alla domanda del perché così tante riviste stiano nascendo in Italia, neanche questo saprei dire, anche se tra le due alternative io propenderei per la seconda.
Nuove uscite
Dovrà pur essere indicativo di qualcosa, il ritorno alle riviste, eppure io non sono riuscito a capire di cosa. Per sopperire alla mia mancanza d’intuizione ho provato, dunque, a leggere alcune delle nuove uscite editoriali. Un’attività a metà tra la pesca a strascico e la rastrellatura. Poco simile allo studio e molto somigliante all’andare per funghi: non soltanto non sai se troverai qualcosa, ma neanche sai cosa stai cercando.
Il risveglio delle riviste è uno degli accadimenti più curiosi di questi ultimi tempi. E che si sia trattato di un cambiamento lento o di una trasformazione repentina, sta di fatto che la madre delle riviste negli ultimi anni si sta facendo mettere incinta con grande generosità. E alcuni dei suoi figli promettono bene.
Quando mi trasferii a vivere nel nuovo appartamento, una decina di anni fa, uno dei miei primi desideri che realizzai fu quello di abbonarmi ad alcune riviste letterarie. Mi piaceva l’idea che una nuova casa fosse anche un nuovo indirizzo a cui ricevere questa o quella rivista. La dolce stanchezza di fine giornata o quella assaporata del weekend, la porta del salotto chiusa dietro le spalle, ci si sistema a sedere sulla poltrona, si accavallano le gambe e si inizia a leggere. Mi dovessi trasferire di nuovo adesso, non mi basterebbe avere due buche delle lettere per ricevere anche solo la metà di tutte le nuove riviste cartacee che nel frattempo sono sbocciate.
«Athleta Magazine è un semestrale che attraverso il racconto fotografico esplora un viaggio nel principio di resilienza, nella scoperta dei propri limiti attraverso il corpo». Sirene è un magazine dedicato al mare e la cui carta è ricavata dalle alghe. Il quadrimestrale Manelique si propone di «diffondere un punto di vista intersezionale e postcoloniale che possa avversare la crescente cultura dell’odio nei confronti dei migranti, che avvelena il dibattito pubblico italiano» e di «stimolare l’articolazione di una coscienza politica collettiva proponendo nuove analisi critiche dei rapporti di potere».
C’è poi Archivio Magazine, Rivista Studio, e The Passenger. Quest’ultima propone una «raccolta di inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un paese e dei suoi abitanti»: una collezione di guide letterarie per scoprire il Giappone, l’Olanda, la Nigeria, l’Islanda, ma anche lo Spazio interstellare e Napoli. E così pure l’Indiscreto, la storica rivista letteraria della casa d’aste fiorentina Pananti, nata nel 1969 e per anni tramutata in blog, ora ritorna nella sua versione cartacea, sempre diretta da Francesco D’Isa.
«Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire», così si esprimeva Marguerite Yourcenar. Fondare riviste ha forse più a che vedere con il circolo del bridge o con il tè del pomeriggio che con i granai, ma con quei circoli del bridge o quei salotti dove mentre si gioca o si beve il tè ci si accapiglia sul serio, si imparano le mosse di quell’altro, si discute animatamente, si litiga e poi, nonostante tutto ciò, la settimana dopo si suona di nuovo a quello stesso campanello e a quella stessa ora.
Al momento del taglio del nastro, Annalena Benini raccontava così Il Foglio Review, il magazine in edicola dallo scorso ottobre con il quotidiano: «Un occhio attento alle storie delle persone, che si muovono sempre lungo strade inattese e misteriose, e la voglia di raccontare i cambiamenti del mondo provando a offrire uno sguardo un po’ laterale, nuovo». Inoltre, con Paola Peduzzi vicedirettrice e Giulia Pompili al coordinamento, la rivista proponeva «una regia femminile». E prometteva qualità di contenuti e carta di qualità. Dopo la cover del primo numero affidata a Emiliano Ponzi, è toccato illustrare le copertine anche a Gabriella Giandelli e a Manuele Fior.
La grafica pregevole e la presenza sulle loro pagine dei migliori illustratori italiani è senz’altro una delle caratteristiche e delle attrazioni che accomunano molte di queste riviste.
Certo è che la rivista cartacea facilita la tendenza a leggere in maniera non sequenziale (saltando da un paragrafo all'altro), un’abilità che è tra le più gioiose per chi voglia saltabeccare un qualunque numero di una qualsiasi uscita, ma sarà mica per così poco che la rivista cartacea, un elemento sostanziale del passato come il telefono in bachelite o la fòrmica, adesso parrebbe ritornato di moda? A passo di gambero si sta davvero tornando indietro nel tempo? Ora che «ci ritroviamo connessi a sterminati dispositivi di informazioni» ci accorgiamo anche «che ciò che doveva illuminare il mondo, di fatto lo relega nell’oscurità».
È quello che scrive l’artista visuale James Bridle, a proposito del web, nel suo saggio Nuova èra oscura, pubblicato in Italia da Nero nel 2019. E scrive anche: «L’abbondanza di informazioni e la pluralità di visioni del mondo che ora ci sono accessibili attraverso internet non stanno producendo consenso su una realtà coerente, ma una realtà dilaniata dall’ossessione fondamentalista per le narrazioni semplicistiche, attraversata da teorie del complotto e politiche post-fattuali».
La fiducia riposta nel web negli ultimi decenni e ora parzialmente perduta, sta forse traslocando almeno in parte sulla carta? Del resto, i periodici sono nel paniere Istat come tutti i beni più frequentemente acquistati dagli italiani. Come il tablet, anche lui nel paniere, e non come il vinile, che invece nel paniere non c’è nonostante la sua recente renaissance.
Qualche giorno fa compariva su Lercio, il giornale satirico che si inventa le storie più divertenti del vero, la notizia di un edicolante che per aumentare le vendite dei dvd pornografici aveva tranciato i cavi dell’Adsl di tutto il quartiere. L’articolo diceva di un «viavai incessante di clienti, gente in fila dalle prime luci dell’alba, alcuni che si sono persino organizzati dalla notte precedente con tende e sacchi a pelo, tutti in coda per essere i primi serviti nella giornata». Ora io mi chiedo se non abbiano tranciato i cavi dell’Adsl in tutte le città italiane. È per questo che le riviste online sembrano aver perso terreno su quelle cartacee, è perché non sono più raggiungibili e siamo quindi tornati dall’edicolante o in libreria a comprare i loro antenati cartacei?
Spiegare il mondo
Credo che una ragione che motivi l’esistenza, se non la fortuna, di alcune di queste riviste potrebbe essere che io, noi, tutti in un modo o nell’altro nutriamo il desiderio di imparare qualcosa.
A questo proposito mi viene da citare un curioso scambio di vedute tra un editore e uno scrittore. Si tratta di un dialogo tra Giulio Einaudi e Cesare Pavese. Einaudi si diceva convinto che il segreto per fare di qualunque libro un bestseller fosse inaugurare il titolo con l’avverbio “come”. Lo sosteneva proprio perché siamo tutti curiosi di imparare qualcosa e, a suo dire, se ce ne viene data l’opportunità la prendiamo al volo. Pavese, che non era per niente d’accordo, tirò in ballo il caso di Via col vento, il romanzo di Margaret Mitchell che nelle prime quattro settimane dall’uscita aveva venduto quasi 180 mila copie, un milione nei primi sei mesi e dopo due anni era ancora in testa alle classifiche. Giulio Einaudi lo ascoltò e gli diede ragione, ma aggiunse che quello stesso libro – che dal 1936 a oggi è stato tradotto in 37 lingue e ha raggiunto le 30 milioni di copie – avrebbe venduto ancora di più se si fosse intitolato Come andare via col vento.
Dallo scorso giugno la rivista del Post, Cose, spiegate bene, la cui ultima uscita è curata da Ludovica Lugli, si impegna a raccontare come sono fatte certe cose. «Ogni numero è dedicato a un argomento, per raccontare come funziona, di cosa si parla, quali sono le Cose da sapere e che spesso vengono date per scontate. Perché le Cose cambiano se le si conoscono bene, e le vite migliorano se si capiscono le Cose». Come sono fatti i libri; come sono le nostre identità sessuali; how do drugs work. E la vendita dei primi due numeri della rivista si è attestata al quattro per cento dei ricavi totali del Post.
A distanza di qualche anno da quando mi capitò di vederla ricordo un’opera esposta nel seminterrato del New Museum di New York. Del resto, di quella mostra temporanea ammetto di ricordare poco. Mi trovai nella sala sotterranea del museo al cospetto di una catasta gigantesca composta da centinaia di manuali. Centinaia di manuali colorati che insegnavano come fare qualunque cose. E scoprivo così che esiste la guida completa alla comunicazione con gli spiriti, la guida completa alla veggenza, la guida completa al feng shui, la guida completa al vino, la guida completa per essere una dea del sesso, la guida completa per decodificare i tuoi geni, la guida completa alla teoria delle stringhe, la guida completa al linguaggio dei segni, la guida completa al birdwatching, la guida completa alle scommesse sui cavalli, la guida completa per scrivere romanzi cristiani, la guida completa per capire gli Amish, la guida completa per allevare capre…
E forse mi sovviene adesso perché così anche alcune delle riviste in auge in quest’ultima stagione editoriale battezzano in ciascuno dei loro numeri un argomento per poi spiegarcelo, raccontarcelo. Così che a lettura ultimata siamo più informati di quanto non lo eravamo prima di sfogliare quelle pagine.
E informarsi significa controllare la situazione, o no? E il controllo della situazione è uno dei tanti prerequisiti utili per momenti di crisi come questo che stiamo vivendo, quando, per dirla con lo scrittore umorista P. G. Woodhouse, «non visto, nell’ombra, il destino lasciava scivolare il piombo dentro il guantone da boxe». Perciò ultimamente molti di noi sono diventati lettori delle riviste di geopolitica come Limes e di Scenari, il supplemento di questo quotidiano. Nella provvisorietà e nell’incertezza che avvolge le nostre città come un manto di pioggia non resta forse altra soluzione che tirarsi le pagine di una rivista di geopolitica sopra gli occhi e leggere senza sosta i commenti di chi ne sa una più del diavolo in fatto di guerre, di carestie e di approvvigionamenti delle truppe.
Passione carta
La punta delle dita umettate per girare le pagine, l’indice bagnato per proseguire nella lettura non è solo un ricordo: per Ian Sansom, autore de L’odore della carta (Tea, 2015), il certificato di morte della carta è stato compilato troppo frettolosamente. Utilizziamo la carta da duemila anni, possibile che sia ancora così seducente? Il reperto più antico pare sia un brandello in fibra di lino trovato sulla Via della Seta, risalente a duecento anni prima di Cristo. Nel 751 il governatore di Baghdad catturò due fabbricanti di carta cinesi per venire a conoscenza del loro segreto.
Quelli usavano la canapa, gli steli di bambù, la scorza del gelso, i licheni, ovviamente il riso e i bozzoli del baco da seta, ma la carta migliore era quella fatta di stracci. Se avessero saputo che migliaia di anni dopo, le edicole avrebbero trasbordato di riviste automobilistiche e riviste che insegnano a disegnare i gioielli all’uncinetto, i due fabbricanti cinesi avrebbero fatto resistito alle torture del Califfato fino a tenere la bocca chiusa?
Possibile che il mélange olfattivo della carta, che deriva dall’interazione degli elementi che la compongono, e che i chimici dell’University College di Londra definiscono come un misto di «note erbose con una punta di acido e un sentore di vaniglia, con un sottofondo di stantio», possibile che sia ancora così allettante per un lettore? Se fosse solo per feticismo nostalgico, allora dovremmo chiederci se è previsto entro questa estate il ritorno della stagione dei fotoromanzi. E invece non è solo per feticismo nostalgico che le riviste nascono e tornano a essere di carta.
La rivista è una forma abbastanza individualistica di partecipazione. Una forma che consente un’appartenenza disimpegnata. Si condivide una certa confidenza, tra chi l’acquista e chi la realizza, ma anche un nodo facile da sbrogliare quando se ne avrà voglia. Condividere i pensieri di qualcun altro più titolato di noi a esprimerli: è anche questa una delle offerte della rivista. Le riviste, che siano di cucina come Sale e pepe o di poesia come quella pubblicata da Crocetti, forniscono l’opportunità di fare parte di una comunità senza consultazioni né conciliaboli, senza riunioni né discussioni. Ma pure con quel respiro sentimentale che soffia dalla partecipazione. Ci sono sicuramente progetti inconsistenti o diafani a cui capita di legarsi temporaneamente, ma basta non comprare il numero successivo e la delusione finisce lì.
E non mancano certamente le riviste letterarie, come K di Linkiesta, «analogica e primordiale», curata da Nadia Terranova e Christian Rocca, e The FLR, un progetto bilingue e semestrale che raccoglie prose e poesie di autori italiani, sotto la direzione di Marino Baldi e Alessandro Raveggi. Di recente anche Einaudi e Feltrinelli si sono mossi in questa direzione. I Quanti, a cura degli editor Francesco Guglieri, Andrea Mattacheo e Marco Peano, sono arrivati alla loro terza uscita digitale. Escono tre volte l’anno e vengono definiti così: «I quanti sono le particelle fondamentali dell’universo, l’informazione minima le cui infinite combinazioni vanno a comporre gli atomi, le molecole e tutto il resto. In una parola: la realtà. Abbiamo bisogno di scoprire, conoscere e capire una realtà mai come oggi confusa e oscura». Finora hanno ospitato, dal personal essay al reportage, dal pamphlet agli scritti ancora più ibridati, Paolo Giordano, Brad Phillips, Hishim Matar, Giovanni Semi e Vincenzo Latronico. Anche Sotto il vulcano, diretta da Sinibaldi, è alla sua terza pubblicazione. Quattro uscite l’anno in versione cartacee, «ogni volta una parte consistente dedicata a un tema preciso, come fosse un libro o una monografia» e ogni volta una direttrice o direttore diverso. Racconti, interviste, fumetti, poesie e saggi. Il primo numero varrebbe anche soltanto per il grafico di Federico Bona, la Bibliografia catastrofica, in cui vengono sistematizzati i grandi libri del disastro, dell’apocalisse, dell’epidemie, dei cataclismi, dei mostri immondi, insomma tutte quelle storie in cui l’umanità è bell’e che spacciata; il secondo varrebbe anche se non ci fossero Enrique Vila-Matas & co e soltanto per le illustrazioni di Marino Neri che corredano favolosamente tutte le pagine del numero; e l’ultima recente uscita varrebbe anche soltanto per le poesie collage di Herta Müller.
Alcune riviste sono sentinelle del mondo; altre tentano di annodare con il lettore un patto di fiducia che poi l’editore spera possa riverberarsi sulle altre pubblicazioni della casa; altre ancora si propongono entrambi gli obiettivi.
Tutto questo gran dire sulle riviste cartacee, sulla babele di nuove proposte in edicole e in libreria, sui motivi per cui stanno tornando in auge, e se invece l’unica ragione di questa new wave fosse un’altra? E se in un momento storico in cui non passa giorno che gli hacker manomettano i siti istituzionali del mondo occidentale, la sola ragione per cui le riviste siano tornate di carta sia proprio per essere immuni agli attacchi informatici? Pare che in Italia non ci sia un coordinamento della cyber security affidabile e che manchi una riforma del comparto. Ma cosa c’importa. Abbiamo la carta. Possiamo farcene un baffo degli hacker russi: nessuno può spiare o mettere sotto attacco le riviste! Mi convinco infine che sia questa la motivazione più seria e credibile per motivare questa florida stagione cartacea. Davvero non me ne viene in mente un’altra che sia ugualmente ponderata.
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