- Una tenda posizionata visibilmente fuori luogo funziona come sostituto fragile e inadeguato della casa, e chi si ripara al suo interno mette in scena, semplicemente sostando, sedendo, dormendo, la precarietà di una condizione.
- È significativo che la prima importante rivendicazione avanzata dagli studenti dell’università dopo il tempo sospeso della pandemia abbia per oggetto la casa.
- La pandemia ha reso forse oggi più inaccettabile, meno ineluttabile di ieri, un sistema di vita in cui le diseguaglianze economiche, sociali, geografiche determinano, come un destino, la struttura delle opportunità.
C’è un tratto che ricorre, in questo tempo, in molte forme di protesta politica: il loro carattere performativo. I corpi che manifestano, che conquistano la scena, pongono una domanda di giustizia nell’atto stesso di apparire nello spazio pubblico, prima ancora che qualunque parola sia proferita, prima che ogni istanza sia articolata.
La protesta che studentesse e studenti universitari hanno messo in campo in questi giorni contro il caro affitti e la mancanza di alloggi, che prosegue nella manifestazione nazionale del 16 maggio, ha precisamente questo profilo.
Una tenda posizionata visibilmente fuori luogo funziona come sostituto fragile e inadeguato della casa, e chi si ripara al suo interno mette in scena, semplicemente sostando, sedendo, dormendo, la precarietà di una condizione. È insomma la stessa «precarietà delle vite», come scrive Judith Butler, che esercitare il suo «diritto di apparizione», a farsi politica.
È significativo che la prima importante rivendicazione avanzata dagli studenti dell’università dopo il tempo sospeso della pandemia abbia per oggetto la casa. Le ragioni sono chiare, largamente condivisibili, e condivise: il rialzo dei prezzi degli affitti nelle grandi città si somma a una situazione pre-esistente di grave scarsità di alloggi, rendendo di fatto insostenibile la vita dei fuorisede. Come del resto di ampie componenti della popolazione urbana.
Ma il tema della casa lontano da casa, per chi si muove per studiare, sembra avere anche un significato più specifico. Perché segna la fine della lunga fase di distanzamento imposta dal Covid-19. La protesta vale, in primo luogo, come rivendicazione di un diritto alla presenza, nella convinzione che “fare l’università” non significa solo ottenere crediti formativi. Ma anche come domanda di un diritto all’autonomia dalla famiglia d’origine, a diventare adulti, nella consapevolezza che studiare lontano da casa è una delle strade per arrivarvi.
La pandemia ha reso forse oggi più inaccettabile, meno ineluttabile di ieri, un sistema di vita in cui le diseguaglianze economiche, sociali, geografiche determinano, come un destino, la struttura delle opportunità. Anche per questo si può dire che la lotta di studentesse e studenti riguarda tutti. Perché quello che questa lotta rivendica è il diritto allo studio, come componente essenziale di un disegno di giustizia sociale, ma anche il diritto alla città, contro tendenze espulsive in atto da tempo, e il diritto a condizioni di vita vivibile. In gioco è allora il ruolo sociale dell’università, ma anche le forme della convivenza. E la capacità di pensare un futuro in cui la precarietà sia contrastata attraverso sostegni istituzionali, che rendano possibili forme di relazione e socialità.
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