Quarant’anni fa, nel 1983, venne pubblicato in tedesco il discorso che Einstein avrebbe voluto pronunciare nel 1922 a Stoccolma per l’assegnazione del Nobel. Ma lo scienziato era in Giappone e all’università di Kyoto per l’occasione parlò a braccio. Un suo allievo giapponese fece a beneficio dei presenti una traduzione simultanea dal tedesco e – basandosi sui suoi dettagliatissimi appunti – pubblicò il testo in giapponese. Molto tempo dopo, nel 1982, questo testo venne tradotto in inglese e, finalmente nel 1983, dall’inglese fu ritradotto in tedesco.

La vicenda serve a Julio Trebolle Barrera (La Biblia judía y la Biblia cristiana, Editorial Trotta) per spiegare come le antiche traduzioni bibliche – greche e latine – permettano di ricostruire il testo delle Scritture ebraiche. Questo succede perché i manoscritti che conservano le versioni greche e latine dell’intera Bibbia sono del IV secolo, molto più antichi di quelli ebraici, copiati nel X secolo.

Insomma, dall’antico latino attraverso l’antico greco si può risalire all’antico ebraico. Proprio come dal discorso di Einstein tradotto in giapponese e successivamente in inglese si è arrivati, attraverso e nonostante i cambiamenti, al testo tedesco. Certo, anche solo per l’estensione, la Bibbia non può essere paragonata al discorso dello scienziato sulla teoria della relatività: le sacre Scritture di ebrei e cristiani si presentano come un libro, ma sono – come dichiara il suo nome più diffuso, che è un calco dal plurale greco biblìa – una raccolta di «libri».

Una storia di traduzioni

Questa biblioteca, molto variegata, per circa tre quarti è costituita dalle Scritture considerate sacre da ebrei e cristiani, denominate dagli ebrei tanak e corrispondenti all’«antico testamento» dei cristiani. Questi ultimi – ebrei che hanno riconosciuto in Gesù il Messia (cioè l’«unto», in greco il Cristo) – vi hanno aggiunto un «nuovo testamento», quasi un quarto dell’attuale Bibbia.

Il nome ebraico tanak è un acronimo che indica l’antichissima tripartizione delle Scritture in torah (la Legge, cioè il Pentateuco greco), nevim (i Profeti) e ketuvim (gli Scritti), testi composti – in ebraico – all’incirca nel corso del primo millennio avanti l’era cristiana. Più o meno nella seconda metà del I secolo sono stati invece scritti – in greco – i libri del Nuovo Testamento: oltre quattro vangeli e ventuno lettere, gli Atti degli apostoli e l’Apocalisse.

Nella storia plurimillenaria della Bibbia un ruolo decisivo è stato svolto dalle traduzioni. Le versioni hanno infatti aperto alle Scritture sacre ebraiche una diffusione che altrimenti sarebbe stata molto più ristretta, garantendo così la sua conservazione. In età ellenistica, a partire dal III secolo prima della nostra era, i libri ebraici vennero tradotti in greco, la koinè diàlektos, «lingua comune» nel mondo mediterraneo e nel vicino oriente; e fu questo un fenomeno culturale – frutto del giudaismo ellenistico – che non ha paragoni nel mondo antico.

La Settanta

Come per tutta la storia antica della Bibbia, i contorni di questa vicenda non sono ben definiti. A raccontarla – in uno scenario leggendario e affascinante ma sostanzialmente fondato – è un testo anonimo di propaganda del giudaismo, la Lettera di Aristea, che attribuisce la versione a 72 traduttori (sei per ognuna delle 12 tribù d’Israele) inviati da Gerusalemme ad Alessandria. Viene così creato un rapporto tra il centro religioso ebraico e il santuario culturale per eccellenza: la biblioteca più celebre dell’antichità ellenistica.

Scritto dopo la metà del II secolo avanti l’èra cristiana, il testo ha avuto una fortuna immensa, pari solo a quella della traduzione di cui racconta le origini e che è detta appunto dei Settanta (o semplicemente «la Settanta»). Anacronisticamente l’iniziativa della versione greca è attribuita al bibliotecario alessandrino e al sovrano dell’Egitto di un secolo prima: «Mi viene riferito – dice Demetrio Falereo a Tolomeo II – che anche le leggi dei giudei meritano di essere trascritte ed entrino a far parte della tua biblioteca» (così nella traduzione di Clara Kraus Reggiani).

Il re libera centomila schiavi ebrei e manda un’ambasceria (di cui fa parte Aristea) al sommo sacerdote di Gerusalemme per ottenere un esemplare affidabile della Bibbia ebraica e avere dei traduttori esperti. Arrivati ad Alessandria, i 72, «accordandosi su ogni punto tra di loro a mezzo di confronti», completano la loro opera «in settantadue giorni, quasi che la cosa fosse avvenuta a seguito di un proposito meditato».

Ad approvare il risultato è la stessa comunità giudaica alessandrina, che riconosce come la traduzione sia stata «eseguita bene, con rispetto della pietà e con rigorosa esattezza», dunque affidabile dal punto di vista sia religioso che filologico. Fin qui il racconto, che contiene però una nuova spiegazione del testo biblico. Per la prima volta, infatti, le prescrizioni alimentari e cultuali ebraiche sono interpretate anche al di là della lettera, come espressione cioè di una religiosità interiore e profonda, più accettabile per la cultura ellenistica e gli stessi giudei ellenizzati.

Al di là del rivestimento leggendario, il racconto dell’anonimo autore rispecchia l’origine storica della Settanta: l’immagine dei 72 traduttori restituisce infatti la realtà multiforme e plurale di un complesso di traduzioni che dal III secolo avanti l’era cristiana hanno trasposto la visione biblica adattandola alle categorie culturali della grecità. Traducendo testi ebraici perduti, mentre in manoscritti del IV secolo – come il Sinaitico e il Vaticano – si legge l’intera Settanta, già da un secolo tradotta in latino.

Il testo dei masoreti

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I più antichi codici dell’intera Bibbia ebraica risalgono invece al X secolo e contengono la forma testuale vocalizzata e stabilita – secondo molti studiosi normalizzata – dai masoreti, copisti ebrei che «consideravano la trasmissione della corretta copia del testo biblico» ben al di là di convinzioni teologiche (Stefano Arduini, Traduzioni in cerca di un originale, Jaca Book). Per oltre mezzo millennio nel giudaismo vivaci furono infatti il dibattito e lo scontro sul rapporto del testo con le rigogliose interpretazioni successive.

Sopravvivono però parti della Bibbia ebraica più antiche del testo fissato dai masoreti. Il Pentateuco samaritano, scoperto nel 1616, è diverso da quello masoretico e in molte varianti, sia pure spesso minime, coincide con la Settanta. E solo il 40 per cento dei testi biblici ritrovati dal 1947 a Qumran – trascritti negli ultimi tre secoli prima dell’èra cristiana – corrisponde secondo Emanuel Tov al testo masoretico; il 60 per cento risale ad altre forme testuali ebraiche, in parte rispecchiate nelle versioni greche.

La traduzione dei cristiani

Verso la metà del I secolo la Settanta viene esaltata dal massimo autore del giudaismo ellenistico, Filone di Alessandria, al punto che questo filosofo e mistico nella Vita di Mosè la considera ispirata come il testo ebraico. E poco più tardi l’altro grande esponente dell’ebraismo ellenizzato, Flavio Giuseppe, riporta nelle Antichità giudaiche buona parte della Lettera di Aristea.

I primi autori cristiani leggono e fanno proprie le Scritture ebraiche nella versione greca della Settanta e riprendono la leggenda di Aristea con varianti ancora più leggendarie. Di conseguenza, per reazione polemica, la Settanta cade in discredito tra gli ebrei che le contrappongono le versioni greche di altri tre traduttori: Aquila, Simmaco e Teodozione.

A metà del III secolo l’alessandrino Origene, tra i maggiori intellettuali e filologi cristiani, difende la Settanta con una iniziativa senza precedenti: un’edizione dell’Antico Testamento su sei colonne. Sono gli Esapla (in greco «sestuplici»), perduti, dove per mostrare l’attendibilità della Settanta – accanto al testo ebraico e all’ebraico traslitterato in lettere greche (e dunque vocalizzato) – figuravano le quattro versioni greche.

Ed è sempre il greco della Settanta a essere tradotto in un latino vicinissimo al greco nell’Africa romana sin dagli inizi del III secolo, sopravvivendo in manoscritti tardoantichi e medievali. Fino a quando Girolamo si basa sul testo ebraico, a cui si riferisce come Hebraica veritas, per una nuova traduzione latina, letterariamente straordinaria. Così – realizzata tra la fine del IV secolo e il primo ventennio del V, e nonostante l’opposizione di Agostino che difende la Settanta – la Vulgata soppianta le antiche versioni latine, imponendosi progressivamente dal medioevo come la Bibbia di tutto l’occidente.

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