Da almeno un paio di secoli il conflitto politico si manifesta anche attraverso l’abbigliamento. Il costume afferma uno status, una funzione, soprattutto quando rischia di divenire una divisa
Il costume, ma anche il modo di indossarlo, guardarlo e interpretarlo, è il riflesso di precise norme sociali. Come sottolineò lo storico francese Daniel Roche, la storia dell’abbigliamento narra il processo di civilizzazione e ne rivela codici e linguaggi. Necessaria è però l’interazione tra moda e politica in una chiave storica, grazie all’uso mirato di archivi pubblici e privati, riviste di moda, quotidiani e riviste illustrate, cinema e social media.
Ciò che va evitato nell’indagine sulle rappresentazioni della leadership politica è l’attualizzazione in una semplificata lettura comunicativa del cosiddetto power dressing ovvero delle apparenze estetiche nella costruzione anche di un “abito politico”. I temi del costume rinviano a colori e cromatismi ben rifusi, ad abbigliamenti individuali e mode vestimentarie, in quanto simboli di un posizionamento di parte o anche come segno di una egemonia culturale.
Da almeno un paio di secoli il conflitto politico si manifesta anche tramite l’abbigliamento; in vari modi, essendo l’abito del potere solo uno di essi. Ciò, a maggior ragione, se in gioco siano il corpo, l’immagine e l’abbigliamento di una “donna politica”. Il costume non è neutro ma politico, come mostrò il periodo rivoluzionario francese, con i suoi sanculotti o l’abbigliamento femminile sotto il Direttorio, secondo lo stile “alla greca” o “alla romana”, il quale, allo stesso tempo, liberava il corpo femminile e offriva modelli vestimentari repubblicani. Il costume afferma uno status, una funzione, soprattutto quando esso, come accade non solo nei regimi autoritari, rischia di divenire una divisa che uniforma e sanziona gerarchie immutabili.
La gestione del corpo
Facciamo esempi più vicini a noi. Ricordiamo il caso di Evita Peron, moglie e consigliere in Argentina del presidente Peron (tra 1946 e 1952). Attrice, conosceva bene la potente seduzione dell’abbigliamento e nei linguaggi dei costumi. Ottima oratrice, le sue parole e il suo abbigliamento crearono un modello di “abito femminile” nella rappresentazione del potere politico.
In Francia invece, Dominique Desanti (1914-2011), autrice di Les Staliniens (Parigi 1975), giornalista, biografa, comunista convinta dal 1942 al 1956, testimoniò la preoccupazione del leader comunista nel rispettare, attraverso le scelte vestimentarie, le convenienze sociali, adottando per le apparizioni pubbliche i segni della rispettabilità borghese: su consiglio di un compagno “esperto”, un abito di alta moda vestiva solitamente Jeannette Vermeersch, moglie del segretario Maurice Thorez, cui si indicarono invece cravatte e abito scuro. In Italia infine, la stampa popolare sottolineò il mutamento vestimentario di Nilde Iotti (la giovane compagna del leader comunista Palmiro Togliatti), passata nel suo guardaroba parlamentare da una inziale trascuratezza a una eleganza seppur sobria, con abiti senza colori vivaci e con l’immancabile tailleur nero per le occasioni importanti.
Con l’esplosione del boom economico e della cultura di massa, fu difficile per i personaggi noti della politica separare la vita privata da quella pubblica. La gestione del corpo implicava una crescente attenzione verso il suo ruolo in politica. A partire almeno dagli anni Sessanta e dal prototipo del generale Charles de Gaulle, il corpo dei politici è divenuto una questione anche e soprattutto mediatica, laddove la messa in scena è intrinseca alla legittimazione consensuale di una leadership. Possono l’abbigliamento e uno stile vestimentario impiantare un discorso politico e farsi costume identitario? Il “corpo presidenziale” – uomo o donna che sia – può divenire esso stesso il riflesso della politica che si vuole condurre? Anche in tal senso gli esempi recenti sarebbero numerosi.
È una leadership che sempre più di più ci parla anche “al femminile”, sebbene l’immagine della “donna politica” sia assai cambiata, grazie a una acquisita autonomia rispetto al “patronato” maschile. Con la promozione dei modelli culturali hollywoodiani e di altrettanti ideali di bellezza femminile, anche le elette (nelle istituzioni in primo luogo) hanno subito l’influenza di una pervasiva ricercatezza estetica.
Se in un primo momento innovazione e conservazione si mantennero in equilibrio nelle rappresentazioni dei modelli femminili, un nuovo linguaggio visivo si sarebbe infine imposto, connotando sia la rappresentazione sia l’autorappresentazione di una leadership impegnata – su più fronti competitivi – a conquistare la fiducia dei cittadini e degli elettori: senza remora alcuna a mettere in mostra anche il lato emotivo e psicologico.
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