Vent’anni fa, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, oscura docente universitaria iraniana, uscito da noi con Adelphi, diventò a sorpresa un caso editoriale. Ricordo come fosse oggi il passaparola a valanga, e il calore con cui Natalia Aspesi mi invitò a leggerlo. Diventò in breve il libro che era vietato non aver letto. Nafisi, che insegnava negli Usa, era tornata in patria nel 1979, dopo la caduta dello Scià, credendo come molti compatrioti in una ricostruzione diversa del Paese. I mattoni con cui voleva contribuire si chiamavano Nabokov, Fitzgerald, James, Austen, bagaglio di veleno occidentale sospetto già alla frontiera. Nel 1995, quando le diventò impossibile proseguire l’insegnamento universitario, avviò in casa sua un’esperienza di seminario con sette delle sue studentesse. L’analisi dei classici “proibiti” non era fine a sé stessa: diventava un grimaldello per confrontarsi con la cappa oppressiva di paura, inibizioni e morte di un regime che aveva instaurato un nuovo apartheid, non razziale ma sessista, e per scoprire il potere liberatorio dell’arte.

Leggere Lolita a Teheran è diventato adesso un film di Eran Riklis, regista israeliano già autore del militante Il giardino dei limoni – su una vedova palestinese e sulla sua battaglia legale contro un ministro israeliano – ed è in concorso alla Festa del cinema di Roma. Il 21 novembre arriverà in sala con FILMCLUB Distribuzione. È il caso di partire dalle parole della scrittrice, che ha accompagnato quello che chiama «il mio film» in Italia, in quella cioè che grazie al Gotha del cinema nazionale definisce «la Repubblica dell’Immaginazione». Azar Nafisi: «Il libro è stato scritto vent’anni fa: cos’è cambiato rispetto a oggi? Vorrei parlare del movimento in atto. Quando la Repubblica islamica è andata al potere, a migliaia le donne si sono mobilitate contro le imposizioni sui rapporti e sull’obbligo del velo. Sono passati quarant’anni, e in tutti questi anni il regime ha cercato di cambiare il cuore e la mente degli iraniani, ma non c’è riuscito. Cos’è cambiato rispetto alla mia generazione? Che le donne iraniane, ma anche gli uomini, hanno ritrovato il loro potere. Scendono per le strade per combattere e avere voce. Non indossare il velo è una dichiarazione aperta di opposizione al regime. Non hanno più paura. È il regime che ha rivelato paura e debolezza, reagendo con tanta violenza, mirando nelle manifestazioni agli occhi e ai genitali. Sa che può solo eliminare fisicamente, perché questa gente non abbandonerà mai la lotta. Questo è un messaggio di speranza, ci fa credere nella vittoria». 

Le testimonianze

La franco-iraniana Golshifteh Farahani, una bellissima approdata anche ai blockbuster con Pirati dei Caraibi, è l’insegnante del film, e come lei tutte le studentesse coprotagoniste sono attrici iraniane in esilio. Teheran va immaginata dallo spettatore. La coproduzione italo-israeliana ha permesso infatti di girare tutti gli esterni a Roma: l’Università è la nostra La Sapienza, con una moschea dipinta che fa da trompe l’oeil, e il Ministero dell’Istruzione è all’Eur, con il palazzo della Civiltà e del Lavoro ben visibile sullo sfondo. Non è agevolissimo prescindere dalle location reali.

L’escalation della «purificazione del sistema educativo per liberarlo dalla decadente cultura occidentale», delle rivolte studentesche e della repressione sempre più sanguinosa rispetta cronologicamente le tappe del libro. Una delle allieve, Nassrin, ricompare dopo tre anni: condannata a dieci anni, è stata graziata, ma ha visto ammazzare amici e amiche adolescenti. Tradurre in narrazione visiva i racconti diretti in prima persona però nel cinema è sempre rischioso. Si perde l’immediatezza delle testimonianze.

Ma soprattutto si perde il fascino intrinseco della scrittura. C’è una magnifica pagina in cui Nafisi racconta la coda sterminata per la proiezione di Sacrificio di Andrej Tarkovskij, censurato senza pietà, in v.o. e senza sottotitoli. «Eravamo assetati di bellezza, in qualunque forma, anche quella di un film incomprensibile, ultraintellettuale e astratto, (..) sfigurato dalla censura». Gli schermi ordinari di Teheran offrono solo «drammoni edificanti dell’Europa orientale o film di propaganda iraniani». Né arrivano dritte alla pancia, attraverso la fiction, le emozioni di quella scoperta comunitaria, a cadenza settimanale. «Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Sedute intorno al tavolino coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene».

La sua vitalità

La grande esclusa, sullo schermo, rischia di essere la sostanza stessa del romanzo-memoriale di Azar Nafisi, ossia la letteratura. Da solo, il coinvolgente processo a Il Grande Gatsby, che l’insegnante mette in scena sui banchi universitari per controbattere agli studenti fondamentalisti catechizzati contro «l’immoralità americana» (offrendogli però piena libertà di parola), occuperebbe l’intero tempo di un film. Sintetizzato in poche battute è pressoché incomprensibile, e vanifica il prezioso gioco di specchi tra le opere di fantasia e la realtà esterna. «Il nostro destino era sempre più simile a quello di Gatsby. Lui aveva cercato di realizzare il suo sogno facendo rivivere il passato, e alla fine si era reso conto che il passato era morto e sepolto, il presente soltanto una finzione, e che non c’era futuro. Non somigliava forse alla nostra rivoluzione, scoppiata in nome di un nostro passato collettivo, e che nel nome di un sogno aveva distrutto le nostre vite?».

Il vero pregio di Leggere Lolita a Teheran, il film, sta soprattutto nel rilanciare il valore e l’attualità dello scritto, che è appena tornato in libreria. Perché come ha detto a Roma la scrittrice «niente resta fermo nella storia umana, ma alcune cose non finiscono mai».

«Abbiamo ancora un regime totalitario che ammazza le persone nelle strade, spara negli occhi per accecare, e purtroppo i media si occupano solo di questa violenza. Sono i cattivi che finiscono in televisione, e noi non dobbiamo seguire questa strada. Quando ho lasciato l’lran, mia madre mi ha detto: “Parla di noi, parla di chi resta in Iran, perché in Occidente non ci conoscono, e il nostro regime ci fa credere che il mondo si sia dimenticato di noi, e che a nessuno importi degli iraniani”. Gli iraniani invece si sono rifiutati di cedere all’oppressione e di usare la stessa moneta, la violenza. Scendono in strada e davanti al fischiare dei proiettili cantano, ballano. E lo slogan che usano, Donna, Vita e Libertà, è un tributo al coraggio delle loro madri e nonne che sono scese per strada all’inizio della rivoluzione. Da lontano vediamo solo i governi israeliano e iraniano che operano per la guerra. Ma è questo stare insieme che conta. È lo stesso che si vede nel libro e nel film, è il messaggio delle ragazze: dobbiamo salvare l’umanità». 

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