In Iran far festa è considerato immorale a partire dalla rivoluzione del 1979, eppure nei sotterranei dei condomini, dietro le tende di case private in periferia, ci si diverte come a Parigi e Londra. È un atto di resistenza, Come danzare per le strade. In un Paese senza industria musicale, i rapper si autoproducono senza guadagnare, mettendo a rischio la libertà
«A Teheran potresti fare la serata più figa della tua vita». Tutto è possibile se sai come farlo, svela il documentario Comment faire la fête en Iran di Daphnée Denis e Léa Delon, disponibile su Arte fino al 2027. In Iran far festa è considerato immorale a partire dalla rivoluzione del 1979, eppure nei sotterranei dei condomini, dietro le tende di casa private alla periferia di Teheran, gli iraniani si divertono come a Parigi, Londra o Berlino.
Certo, bisogna avere delle accortezze. L’alcol si compra al mercato nero o si produce in casa, le ragazze arrivano e ripartono coperte dal velo, la maggior parte degli ospiti va via la mattina successiva a piccoli gruppi per dar meno possibile nell’occhio. Una volta nella location segreta, però, tutto è concesso. Cocktail e paradisi artificiali, abiti scollati e tacchi, ma anche baggy jeans e crop tops, effusioni e mode occidentali. La gente, per il tempo di una serata, vuole dimenticare i divieti, il regime. Costi quel che costi.
La festa diventa una resistenza, concordano tutti gli iraniani intervistati da Daphnée Denis, giornalista francese di Arte, che ha deciso di girare un documentario sulla scena artistica underground iraniana, sconosciuta e ignorata dall’Occidente, dopo aver partecipato a una serata di Disco Tehran a Parigi. «Quella sera ho visto molte persone della diaspora iraniana riunirsi per ascoltare le hit iraniane», spiega Daphnée Denis. «Volevo capire quali sono i suoni che fanno scatenare i giovani nel loro Paese e nel mondo. Se è vietato, com’è possibile riunire le persone intorno a canzoni che tutti conoscono? Come far festa in Iran? La domanda vi sembrerà strana perché da più di un anno quando si parla dell’Iran si parla di un governo fondamentalista e di un popolo che chiede libertà dopo la morte di Mahsa Jina Amini. Ma la disobbedienza in Iran vuol dire anche organizzare delle feste, ballare e suonare. Tutte attività più o meno illegali. Volevo smentire la visione occidentale secondo cui la cultura iraniana è in ‘pausa’ dalla rivoluzione del 1979».
La chiusura del 1979
Quell’anno l'ayatollah Khomeini vietò molte attività della vita quotidiana e limitò i diritti delle donne. «Ma in realtà non esistono leggi scritte che proibiscano la musica o la danza. Sono gli atti indecenti o immorali a essere proibiti. Questo vuol dire tante cose, tra cui le serate miste, la musica occidentale o considerata non islamica, le performance delle donne in pubblico. Ecco perché le feste sono considerate immorali e quindi illegali. Chi sfida queste regole rischia delle multe soprattutto, ma anche frustate o addirittura la prigione. Nel tempo regimi più o meno severi si sono succeduti, ma a seconda del momento politico hanno dimostrato una certa tolleranza. Per esempio la musica di influenza occidentale è stata vietata dopo la rivoluzione del 1979. Allora i negozi di dischi dovettero chiudere e si sviluppò un commercio musicale clandestino, con gruppi in esilio che producevano musica soprattutto da Los Angeles. Ma negli anni successivi le regole cambiarono. Negli anni Novanta, soprattutto sotto il presidente riformista Mohammad Khatami, le regole si sono allentate: sono tornati i negozi di dischi e in quel periodo l'hip hop ha iniziato a diventare sempre più popolare. Poi, nel 2005, Mahmoud Ahmadinejad ha nuovamente vietato la musica occidentale. E lo stesso accade per la danza: non esistono regole su ciò che è o non è un atto immorale. Quel che è certo è che qualsiasi esibizione pubblica di una donna è considerata indecente».
Permessi e divieti
In sostanza quindi le regole sono ambigue. In assenza di leggi chiare su cosa è permesso e cosa no, gli iraniani non rinunciano alla propria libertà ma vivono nella costante paura di essere arrestati. «Bisogna capire che in Iran si vive in modo schizofrenico. Abbiamo identità multiple a seconda delle persone con cui ci troviamo. Questo è molto difficile da comprendere per gli occidentali», spiega Arya Ghavamian, cofondatore di Disco Tehran e Cinéma Tehran, che vive negli Stati Uniti ma rimane molto legato al suo Iran.
Nella gimcana quotidiana tra permessi e divieti allora tutto ciò che è proibito si sposta nelle abitazioni private. Il luogo e la data delle feste clandestine vengono comunicati su app come Telegram, censurata ma accessibile attraverso le reti vpn, così le informazioni circolano con il passaparola. «Le nostre serate sono assolutamente hardcore, la musica iraniana non è diversa da quella francese o tedesca», racconta Nesa Azadikhah, dj e figura di spicco della techno in Iran. Nesa ha cominciato a mixare a delle serate clandestine a Teheran a 16 anni e ha cofondato la piattaforma Deep House Tehran nel 2014. Anche se il regime censurava già internet quando ha cominciato, ha aggirato le restrizioni per suonare alle feste. Oggi vive tra l’Iran e Parigi da quando ha cominciato nel 2022 la sua tournée internazionale. È stato al Rex di Parigi che ha mixato per la prima volta in Europa. Nonostante la paura che polizia possa interrompere le sue esibizioni, Nesa non ha mai smesso di suonare.
La scena musicale
Così Roody, rapper iraniana che noncurante dei divieti posta regolarmente la sua musica sui social e ci mette la faccia. «Per me è molto importante essere riconosciuta come donna rapper in questo Paese dominato dagli uomini». Ma la musica di Roody, in quanto illegale, non può essere distribuita, perciò la rapper iraniana non può vivere del suo lavoro. «A volte mi sento felice altre, depressa, perché so che la mia arte è vietata ma continuo a fare concerti in Iran. Questa è la mia resistenza al regime. Ma allo stesso tempo mi sento male perché non posso farlo apertamente, devo suonare in modo illegale, pericoloso. È dura».
In Iran far festa è considerato immorale a partire dalla rivoluzione del 1979, eppure nei sotterranei dei condomini, dietro le tende di case private in periferia, ci si diverte come a Parigi e Londra. È un atto di resistenza, Come danzare per le strade. In un Paese senza industria musicale, i rapper si autoproducono senza guadagnare, mettendo a rischio la libertà
In un Paese in cui non può esistere un’industria musicale, rapper come Roody devono produrre i loro brani in modo indipendente, senza guadagnare niente, mettendo tutti i giorni a rischio la loro libertà, a volte la loro stessa vita. «È questo che rende la scena underground per eccellenza, è lo spirito hip hop quello della protesta», spiega Daphnée Denis. «Lo sviluppo di una scena hip hop underground fa parte della resistenza culturale proprio perché è una musica influenzata dall'Occidente». Chiaramente l’hip hop viene contaminato con sonorità iraniane e molta poesia come nella musica di Toomaj Salehi, rapper condannato a morte per aver sostenuto il movimento Woman Life Freedom. Solo a fine giugno gli è stata revocata la condanna. «Noi artisti abbiamo solo parole, ma possiamo usarle come una mitragliatrice contro la dittatura», aveva scritto Toomaj Salehi.
Danzare in strada
Lo stesso grido di libertà è quello che porta molte donne a continuare a danzare in pubblico nonostante i divieti. «Oggi in Iran le persone si battono attraverso la danza, non hanno armi, ballano nelle strade», racconta Sahar Deghan, danzatrice iraniana e una delle prime donne ad aver praticato la danza sufi tradizionalmente riservata agli uomini, con i suoi lunghi capelli al vento. Non è però la prima volta che la protesta avanza a passi di danza. «Nel 2018 è stato lanciato il movimento Dancing is not a crime, dopo che una ragazza è stata interrogata dalla polizia stradale per aver postato dei video in cui ballava nella sua camera da letto. Dopo la morte di Mahsa Jina Amini, è di nuovo diventato un gesto di solidarietà».
Emblematico il caso del video diventato virale delle cinque ragazze iraniane che ballavano senza velo e con i capelli al vento, sul sottofondo della canzone Calm Down di Rema, in una piazza nel sobborgo di Ekbatan a Teheran. Le ragazze sono state arrestate e costrette a chiedere pubbliche scuse girando un video con il capo velato. Ma la disobbedienza civile oggi non si ferma. Sempre più donne vanno a capo scoperto, sempre più persone portano avanti la rivoluzione attraverso la musica e la danza. «È un modo per liberarsi dalle catene di una società troppo rigida e per affermare una cultura che non è convalidata dal regime. È una sorta di catarsi per chi non vuole piegarsi alle regole della morale islamica, ma non è necessariamente politicizzata. In fondo, per molti far festa è solo un modo per scaricare la tensione», conclude Daphnée Denis.
«Immagina di essere a un party a Berlino, Parigi, Londra o New York, e all’improvviso parte una canzone della tua infanzia. Io esco pazzo. Tutti gli iraniani escono pazzi». Come Arya Ghavamian, iraniano emigrato negli Stati Uniti, sono tanti gli iraniani a non poter contenere l’irrefrenabile desiderio di ballare, nei locali di tutto il mondo o a una festa clandestina; ma anche nelle strade, nelle metropolitane, sugli autobus di Teheran. Perché la canzone Baraye di Shervin Hajipour, condannato a 3 anni e 8 mesi di carcere, ricorda di aver ogni giorno un po’ meno paura di cantare, ballare, baciarsi. Vivere.
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