Un’anti captatio benevolentiae per iniziare. Al liceo non amavo il Paradiso dantesco. Un anno intero senza toccare terra, con il naso in su a contemplare cieli, angeli e corpi celesti; a cercar di capire come si fa ad adorare Beatrice, ma in modo casto e puro. Insomma, non ci capivo nulla e rimpiangevo l’Inferno e il Purgatorio, lamentandomi con una nostalgia un po’ snob alla macchinetta del caffè.

Andavo pazza, invece, per gli strabilianti neologismi di Dante, soprattutto quelli che iniziano con in-: inforsarsi, essere in dubbio, dentro il forse, ma anche immegliarsi e il bellissimo indracarsi, diventare letteralmente drago. E poi il romantico intuarsi, che meraviglia! entrarti dentro, il riflessivo perfetto per una stagione in cui ogni esperienza, non ultimo l’amore, ha la voracità dell’istante.

Alcuni di questi “in-” paradisiaci andavano pronunciati con tono solenne: insemprarsi, incielarsi, imparadisare, inmillarsi. Come si fa a star dentro l’eternità? Come nel cielo? Come si diventa da uno, mille e poi migliaia?

A leggere il Paradiso, a cui questi verbi appartengono, non avrei saputo cosa dire, ma allora, come ora, Omero conosceva la risposta. Mi importava poco sapere se Omero fosse realmente esistito, se ve ne fossero uno o due. Omero o chi per lui aveva sempre saputo come insemprarsi, scusate il gioco di parole, forse anche come incielarsi, imparadisarsi no. E se Dante usa il verbo inmillarsi per descrivere le schiere degli angeli, Omero nell’Iliade, con un vero gioco di prestigio, è stato in grado di inmiliare praticamente tutto, dalle mosche agli esseri umani, dalle navi agli uccelli del cielo.

Leggi i primi versi di un canto, per esempio il secondo, e ti si apre davanti un mare con più navi di pesci; talmente tante che il poeta sente l’esigenza di rassicurare il suo pubblico: non vi preoccupate, ci dice, non mi ricordo i nomi di tutti, non so davvero fare la conta dei guerrieri e dei loro duci, non saprei riconoscere la prua di ogni nave achea in navigazione verso Troia. Sono le Muse ad avermi ispirato: loro sì ricordano ogni cosa.

L’infinito 

È tutto infinito in Omero, anche i dolori, come ci ricorda l’Iliade fin dal secondo verso del primo canto. Si combatte in due, si muore da soli, ma circondati dalla cacofonia di migliaia di altri guerrieri, sotto un cielo attraversato da stormi di gru, di fronte a un mare pieno di pesci.

La dismisura di quel continuo inmillarsi, del costante insemprarsi può togliere letteralmente il respiro al lettore contemporaneo; non era così per gli antichi: un po’ perché molti dei guerrieri impegnati in un duello sulla pianura troiana erano familiari come lontani parenti, un po’ perché i cieli erano davvero attraversati da migliaia di uccelli in volo e il mare era pieno di pesci e di polpi, così numerosi da finir spesso inmiliati su un piatto o su un vaso.

Soprattutto l’Iliade, l’Odissea, non si leggevano tutto d’un fiato; si ascoltavano invece, scomposte in storie grandi e piccole, canto per canto, mito per mito. Si ascoltavano intorno a un fuoco, in un accampamento, in quelle famose notti di quiete, di cui parla Omero, con le stelle che si insemprano, inmillandosi anche. Si ascoltavano nelle piazze dei villaggi d’estate, raccontate alla maniera dei cunti siciliani. Venivano cantate nelle sale dei banchetti dei palazzi degli antichi signori, nelle feste in onore delle divinità, persino accanto a un sepolcro.

Per leggere il sesto canto dell’Iliade serve un discreto coraggio di fronte a tutto quell’inmiliarsi di eroi, in una manciata di versi, ma soprattutto serve anche far finta di essere lì: in una serata d’estate, al tramonto, con un bicchiere di vino in mano, possibilmente in una remota isola greca.

Se lo sforzo immaginativo riesce si scopriranno nell’ordine: le prime foglie cadute a terra, a rappresentare per l’immaginario poetico che verrà la vita degli esseri umani; il primo momento in cui due guerrieri scelgono, anziché battersi, la strada del dialogo; il primo malinconico di tutta la storia d’Occidente, Bellerofonte; la prima e la più bella dichiarazione d’amore fra due sposi, Ettore e Andromaca; il primo bambino, Astianatte, la prima volta in cui un padre abbraccia suo figlio, sapendo di farlo per l’ultima volta.


Il testo è un estratto di Omero. Delle armi e del vero amore (Il Mulino 2024)

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