Ho letto il bell’articolo di Fabrizio Sinisi su Petrolio 25 anni dopo, edito da Quodlibet e curato da Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio.
In questo libro è presente anche un mio corpo a corpo con Pasolini – scrittore da me fronteggiato ma, proprio per questo, rispettato e amato – ed è anche per questa passione condivisa che sento il bisogno di buttare giù queste righe.
Non entro nel merito delle tante osservazioni importanti e giuste contenute nell’articolo di Sinisi, riguardanti l’opera performativa di Pasolini, la sua preveggenza, lo scandalo della non verità giudiziaria sul suo assassinio collettivo efferato e tante altre cose. Qui voglio solo attirare l’attenzione su un particolare che magari può sembrare secondario ma che è per me di importanza cruciale e che ha a che vedere con un’idea debole o forte della letteratura e con la sua radicalità e verticalità.
Una questione di abrasione
Leggo, a proposito di Pasolini e del suo essere “abrasivo” (ma, in questo caso, l’osservazione è di Walter Siti) che a «chi scrive letteratura oggi» mancherebbe questa capacità di abrasione e di mettersi in pericolo. A me pare che questa osservazione, oltre a generalizzare e fare di tutte l’erbe un fascio, alluda con la parola “abrasivo” solo a ciò che sta dentro una dimensione storico-politica, esistenziale e sociale della vita, del mondo e del potere e collida in modo orizzontale con questa. Che è un segno del nostro tempo e della presa di dominio di un’unica lettura della realtà e del suo “realismo” terminale, che tende a fagocitare anche ciò che di irriducibile cova e può ancora covare nelle viscere della letteratura.
Quanto a Pasolini, non è detto che, come in pieno Novecento e ancora immerso in una certa idea del mondo ha inserito in Petrolio materiali presi dalla realtà politica e sociale del tempo, così oggi, per una progressione lineare, ci ficcherebbe dentro video, link, siti internet ecc. Non è affatto sicuro, non si può sapere se avrebbe seguito quest’unica e ancillare deriva o se invece - per fronteggiare un mondo pervaso da un’azzerante comunicazione circolare globale - avrebbe dovuto andare controcorrente, se non avrebbe invece dovuto oltrepassare con l’invenzione anche ciò che allora lo teneva ancorato a una lettura intellettualmente claustrofobica e antropocentrica della vita e del mondo.
Oltre lo specchio
A me pare che l’abrasione più profonda, sul piano dell’immaginazione e della conoscenza, abbia bisogno anche dell’invenzione e di una diversa e spiazzante visione. Che non basti inserire ed elaborare scomodi materiali di documentazione o controinformazione per essere “abrasivi”, facendo lo stesso identico gioco di ciò che si crede di combattere e stando sulla sua stessa lunghezza d’onda. Forse che Pinocchio, La metamorfosi oppure Moby Dick erano meno abrasivi solo perché non esibivano verità giornalistiche e sia pur importanti e brucianti descrizioni contingenti del proprio tempo?
Forse che Moby Dick era (ed è) meno abrasivo di altri libri usciti negli stessi anni, come ad esempio La capanna dello zio Tom? A me pare che lo fosse (e lo sia) ancora di più, proprio perché fronteggiava non solo la piccola parte emersa dell’iceberg ma anche la parte sommersa, più oscura, più decisiva, più grande, proprio perché il suo autore si è caricato sulle proprie spalle non solo il compito dell’indagine e della giusta denuncia ma anche la radicalità alata e la veggenza contenute in altri saperi, fiabeschi e mitici, che devono oltrepassare la realtà per mostrarci una verità e una realtà più grandi e ulteriori. E che il “pericolo” e il “rischio” siano anche e soprattutto questo. Non solo mostrare cosa si vede dentro lo specchio ma attraversare lo specchio e sfondarlo.
In questo drammatico inizio di secolo e di millennio, dopo il Novecento in cui la letteratura è andata a ficcarsi nel vicolo cieco della duplicazione “realistica” della realtà o del riciclo di materiali letterari in un perpetuo gioco di specchi - e in cui siamo di fronte persino al rischio di una nostra estinzione di specie -, bisogna anche conquistare un’altra capacità di visione, magari tragica ma metamorfica e aperta. Affrontando, se necessario, solitudine e invisibilizzazione, perché lo sguardo dominante, anche culturale, tende a cancellare ciò che non è tarato sul proprio schema mentale e sulla propria resa. E allora bisogna chiedere anche al lettore di volare alto e di reinventarsi. Non deve volare alto solo lo scrittore, deve volare alto anche il lettore. Si deve reinventare non solo lo scrittore, ma anche il lettore. Scrittore e lettore devono stringere un patto di vita o di morte, volare alto e reinventarsi a vicenda, perché quello che abbiamo di fronte richiede niente di meno che un’invenzione e reinvenzione del mondo. Se la letteratura non fa questo, cosa ce ne facciamo della letteratura, abrasiva o no che sia?
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