- Di Thomas Pynchon non si sa praticamente nulla. È lo scrittore più misterioso della letteratura mondiale da Omero a oggi. Salinger gli fa letteralmente un baffo. Non ha mai concesso interviste.
- È proprio questo il cuore della letteratura postmoderna. La bizzarria linguistica, il labirinto delle esistenze, gli specchi emozionali che si moltiplicano all’eccesso, l’estrema frammentazione del senso e del mondo.
- Qual è in definitiva il messaggio di Pynchon? Che noi stessi, noi esseri umani, siamo la trama di un disegno smisurato, di una fantasia sterminata e imprendibile, irricevibile, esattamente come la mostruosa, selvaggia fantasia di questo trampoliere degli intrecci letterari.
Di Thomas Pynchon non si sa praticamente nulla. È lo scrittore più misterioso della letteratura mondiale da Omero a oggi. Salinger gli fa letteralmente un baffo. Non ha mai concesso interviste. Si hanno a disposizione soltanto una manciata di fotografie, di cui le prime (rarissime) in bianco e nero degli anni Cinquanta – nell’Yearbook dell’Oyster Bay High School di New York – e l’ultima del 2018 strappata da un rotocalco americano: il (probabile) canuto Thomas si reca a votare assieme al figlio Jackson, nato dal matrimonio con il suo agente letterario Melanie Jackson.
Si vocifera che nel film interpretato da Joaquin Phoenix Inherent Vice, tratto dall’omonimo romanzo pynchoniano, ci sia un cameo dello scrittore. Ma nulla è sicuro. Emblematica è una puntata dei Simpson – Diatriba di una casalinga pazza, trasmessa negli Stati Uniti il 25 gennaio 2004 – in cui l’autore dell’Incanto del Lotto 49 presta la sua voce al personaggio che rappresenta sé stesso, Thomas Pynchon, con un sacchetto in testa e un punto interrogativo stampato.
Analisi dello sfacelo
Nato l’8 maggio del 1937 a Glen Cove, Long Island, a est di New York, Thomas studia Ingegneria fisica alla Cornell University. Nel 1957 abbandona gli studi per arruolarsi nella marina: un’esperienza che riecheggerà nei suoi libri (si pensi all’incipit di Contro il giorno, 2006, trad. it. Einaudi 2020).
Dopo il congedo ritorna agli studi, ma mutando la direzione: si iscrive alla più consentanea facoltà di Lettere. In questo periodo – tra il 1959, anno della laurea, e il 1964 – scrive i racconti poi riuniti nel volume del 1984 Un lento apprendistato (Einaudi 2007). Al 1963 risale invece V., il suo primo romanzo, pubblicato in Italia due anni dopo l’edizione americana, una pietra miliare della letteratura postmoderna.
In cosa consiste? Be’, basta citare il titolo del primo capitolo: Nel quale Benny Profane, schlemihl e anche un po’ yo-yo, arriva a toccare l’apocheir. Sì, è proprio questo Pynchon. È proprio questo il cuore della letteratura postmoderna.
La bizzarria linguistica, il labirinto delle esistenze, gli specchi emozionali che si moltiplicano all’eccesso, l’estrema frammentazione del senso e del mondo, la parcellizzazione dei singoli eventi sino a che essi non assumono un effetto tetraedrico e polidimensionale, la commistione di cultura pop e citazioni coltissime, la storia nella storia, la mise en abîme eretta a principio cosmico.
La letteratura di Pynchon è di un realismo isterico e paranoide, i personaggi sono spesso braccati da agenti federali in azioni di spionaggio e controspionaggio, ma chi può dire davvero che gli accadimenti sono tali in misura oggettiva o sono più semplicemente lo strano frutto delle allarmanti psicosi dei protagonisti?
Guido Almansi nel saggio introduttivo all’edizione Rizzoli di V. ha notato che questa tipologia di scrittura coincide con «un’analisi dello sfacelo, una coscienza del collasso, una testimonianza della frammentazione, una critica radicale del concetto di verità. Se non c’è più verità nella storia e nella scienza [...] tutto diventa uguale a tutto».
Vogliamo parlare delle trame? Ardua impresa. Stendere su carta il plot di un romanzo di Pynchon vuol dire ricopiare il romanzo stesso, bagnato fino alle midolla di artifizi, architetture, materiali da costruzione. La struttura è tutto quello che si può asserire dell’opera stessa, eppure contro ogni evidenza lo scrittore assomiglia a un’«erratica cometa» che sguscia via, per utilizzare la definizione che Pynchon stesso dà di Hector Zuñiga, nella sua quarta prova narrativa, Vineland (1990), ristampata in questi giorni da Einaudi (traduzione di Pier Francesco Paolini).
I nomi
Soffermiamoci soltanto sui nomi principali del testo. I nomi. (Si è detto: la trama è impossibile da riassumere.) Partendo dall’immaginaria contea di Vineland, situata in California, un setting particolarmente congeniale a Pynchon. Alla lettera è la terra dei vini, la California appunto.
Ma in termini psicometrici la Vineland è «una scala che valuta l’autonomia personale e la responsabilità sociale delle persone dalla nascita fino all’età adulta» (vd. neuropsicomotricista.it). In effetti il romanzo è permeato da questa coscienza di reciproca responsabilità – sempre messa in discussione e faticosamente riconquistata – ed è anche una lotta per l’autonomia: l’autonomia da un potere soverchiante che, con il suo sinuoso e lisergico fascino, tenta sin dall’inizio di invischiare nella feccia la famiglia dell’ex hippy Zoyd Wheeler.
Quest’ultimo riceve un sussidio pubblico in quanto (finto) malato di mente: ogni anno dà solide zuccate alle vetrate dei locali con la tv pronta a filmare. Arriviamo al suo cognome: wheeler è il veicolo, ma anche chi lo conduce. Zoyd, al volante di un trabiccolo ormai in panne, ossia la sua vita, è un simpatico pasticcione che ama la figlia Praire (prateria?) ed è perseguitato dall’agente Fbn Zuñiga (il quale, essendo videopatico, è ha sua volta perseguitato dalla Never, l’ente morale per la videoeducazione e riabilitazione).
Come gatto Silvestro e Titti, «Hector aveva di tanto in tanto desiderato di annientare Zoyd in stile cartoni animati, si era però reso conto [...], che Zoyd era la preda meno probabile da mettere nel sacco».
Poi c’è Frenesi Gates, madre di Praire, cresciuta in una famiglia di sindacalisti con alle calcagna l’Fbi: «Il suo nome celebrava quel disco di Artie Shaw che passava su tutte le radio e i juke-box durante gli ultimi giorni di guerra». Subisce il fascino del potere incarnato dal procuratore Bock Vond, il male in azione, il Mefistofele che sarà sommerso negli inferi.
Isaiah Due Quattro, punk-rocker fidanzato di Praire, ha un significato ben preciso e stigmatizza un’epoca: «Il suo nome è un versetto della Bibbia» che, rivela la ragazza, «i suoi genitori hippy-freak [...] gli appiopparono nel 1967. Si riferisce alla conversione della guerra in pace, delle lance in falci».
Qui è possibile ravvisare uno dei temi peculiari del libro. Pynchon sembra chiedersi: cosa fa oggi (1984, l’orwelliano anno di ambientazione di Vineland) la generazione di hippy-freak e beatnik, di cui lui stesso era stato partecipe? Cos’è successo nel frattempo con l’America di Reagan? La controcultura degli anni Sessanta ha perso? Il neoliberismo sta riplasmando le coscienze dopo la sbornia dei movimenti di protesta?
Il change additato da Bob Dylan (The Times They Are a-Changin’) si è concluso in un nulla di fatto? Sono tutte domande retoriche. Sì, sì, sì, pare rispondere Pynchon cupo e sconfortato.
Effimera bellezza
Ma attenzione: la sua letteratura è un abile gioco, una tessitura ironica di tecniche oliatissime. E mentre l’ingombrante armamentario di nomi con tutte le loro bizzarre occupazioni – Ufo, uomini mascherati da hostess con l’ukulele, la band Vomitones, monache esperte in arti marziali, sicari yakuza, l’autostoppista Thanatoide («come la morte, solo diverso») e via dicendo – si riverbera in un orizzonte soffuso, in un arcobaleno della gravità, il furbo e sardonico Thomas non nasconde soltanto il suo viso ai media, la sua silhouette ai curiosi: cela anche i suoi intenti più genuini, «il muso cosparso di piume di ghiandaia azzurra, gli occhi sorridenti, la coda in agitazione».
Perché, come la ghiandaia azzurra presente all’inizio e alla fine di Vineland in un’impressionante struttura circolare del caos, egli dispiega a ventaglio le ali blu metallizzate della sua inventiva e mostra la bellezza effimera di un volo che nessuno sa dove potrà posarsi.
Qual è in definitiva il messaggio di Pynchon? Che noi stessi, noi esseri umani, siamo la trama di un disegno smisurato, di una fantasia sterminata e imprendibile, irricevibile, esattamente come la mostruosa, selvaggia fantasia di questo trampoliere degli intrecci letterari, il quale ci lascia ogni volta esterrefatti dinanzi al suo disturbante affresco cabalistico di nomi-barbaglio, schegge luccicanti dentro una rete di significati dall’orlatura finissima e labile.
A tale affresco possiamo rispondere solo rovistando lungamente nel nostro intimo per cercare il pezzetto del puzzle teso a ricomporre quel Tutto che, al pari di V. Venere, Vergine, Veronica, Vheissu («Dentro V., dentro lei, c’è molto di più di quanto nessuno abbia mai sospettato. Il problema non è tanto sapere “chi” è, ma “che cosa”. Che cos’è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta, né in questa sede, né in qualsiasi rapporto ufficiale»), non riusciremo mai compiutamente ad afferrare.
Thomas Pynchon è autore del libro Vineland (1990), ristampato in questi giorni da Einaudi con traduzione di Francesco Paolini
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