- Domenica 22 agosto, nel supplemento DopoDomani in cui sono state pubblicate brevi opere narrative di scrittrici e scrittori, è apparso anche un racconto di Jonathan Bazzi dove l’autore provava a immedesimarsi nella mente di una persona alle prese con l’inizio di un disturbo alimentare. Alle critiche dei lettori ha poi risposto lo stesso Bazzi.
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Questo racconto ha generato sui social un dibattito feroce. È stato frainteso un episodio di scrittura narrativa, scambiandolo per una sorta di editoriale. Siamo giunti a un punto in cui è necessario ripensare le modalità con cui un’opera artistica viene comunicata?
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Domenica 22 agosto, nel supplemento DopoDomani in cui sono state pubblicate brevi opere narrative di scrittrici e scrittori, è apparso anche un racconto di Jonathan Bazzi dove l’autore provava a immedesimarsi nella mente di una persona alle prese con l’inizio di un disturbo alimentare che, nella narrazione, scopriamo avere tutte le possibilità di configurarsi come grave.
Il personaggio realizzato da Bazzi racconta la sua vita resa tremenda da questo disturbo, ma lo fa con il piglio di chi ne è contento: senza alcuna morale – come tantissima letteratura ha insegnato a fare – questo personaggio gode del suo malessere/benessere, fino a disprezzare chiunque provi a dissuaderlo dai suoi comportamenti. Una finzione letteraria asfissiante, che indispone chiunque la legga (il magistero, in tal senso, è piuttosto ricco nella letteratura italiana contemporanea, in una genealogia che include Siti, Ciabatti, Vinci, Mozzi ecc.).
Questo racconto di Bazzi ha generato sui social un dibattito feroce. Alle discussioni (e alle shitstorm, purtroppo) si è ormai abituati ma, a chi scrive, questa in particolare ha generato una riflessione.
L’equivoco
Da un lato è fondamentale respingere alcune parti di questo dibattito. Come ha detto in alcune stories Instagram il conduttore radiofonico Diego Passoni, diverse persone hanno attaccato il racconto di Bazzi perché sprovvisti di «una grammatica» che permettesse loro di discernere un testo letterario da un articolo d’opinione. È stato (incredibilmente?) frainteso un episodio di scrittura narrativa, scambiandolo per una sorta di editoriale in cui Bazzi si schiererebbe a favore dei meccanismi che conducono a una patologia come l’anoressia.
Un fraintendimento dettato sicuramente da due dinamiche.
La prima è irrisolvibile, a meno che le persone coinvolte non si approprino proprio di quella «grammatica» che faccia comprendere loro il funzionamento della semiosfera della letteratura: scambiare l’io letterario per l’io dell’autore è un meccanismo di inciampo del lettore sul quale è stato detto così tanto e che qui non si può fare altro che tralasciare.
La seconda dinamica che ha portato al caotico equivoco è, invece, molto più centrale: il modo in cui il racconto è stato comunicato. Il titolo dell’opera narrativa è stato effettivamente redatto (non dall’autore) come se fosse un articolo giornalistico, generando scalpore anche senza leggere il racconto, spingendo addirittura molte persone (che non hanno compreso la natura del supplemento DopoDomani) a chiedersi come fosse possibile ospitare in un giornale un pezzo intitolato Lascio a voi la body positivity. Io voglio solo essere magro. Per tante persone che hanno partecipato al dibattito anche solo questo titolo, potenzialmente, potrebbe essere un rischioso trigger per chi sta provando a gestire i sintomi connessi ai disturbi alimentari.
Dunque a gran voce è stato chiesto a Bazzi (e alla redazione di Domani) questo: quando pubblicate pezzi (siano articoli, racconti, opinioni, finzioni, non importa) che trattano di certi temi, per favore, mettete un trigger warning che possa permetterci di scegliere se leggerli o meno. Perché le parole – letterarie o no – possono fare male. Possono far ripiombare in traumi, in dolori, in crolli.
Esempi di trigger warning
Il trigger, in psicologia, è quel «grilletto» che può far scattare nella mente di un soggetto che ha subìto un trauma reminiscenze dell’esperienza che lo ha ferito – e che, spesso, ha causato patologie psichiche.
Esempi. Le persone con disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) – ossia che hanno subìto o hanno assistito a un evento catastrofico o violento – di fronte a suoni, luoghi, persone, immagini, argomenti di un certo tipo possono rivivere un forte senso di paura o ricordi disturbanti legati all’esperienza traumatica.
Questioni simili non possono non arrivare a toccare anche l’enorme sfera delle narrazioni. Anche, forse, quelle artistiche o di finzione (ed è qui l’inciampo che, il sottoscritto, non riesce a osservare con piena lucidità). Una persona vittima di violenza sessuale, e che lotta quotidianamente con tutte le tremende conseguenze psichiche di tale evento, potrebbe ritrovarsi ad avere un crollo emotivo nel guardare un film come Irréversible di Gaspar Noé, dove viene inscenato uno stupro particolarmente efferato e disturbante. Oppure, una persona che soffre di una sindrome depressiva acuta accompagnata da pericolose tendenze suicide, potrebbe trovare carburante per le sue pulsioni in un’opera come Inside di Bo Burnham o ascoltando un brano come Suicide Solution di Ozzy Osbourne, dove il concetto di suicidio viene tematizzato in modi controversi.
Da alcuni anni, specialmente negli Stati Uniti, il discorso sui trigger è al centro del dibattito e ha portato a una sorta di proposta risolutiva: applicare in apertura di programmi tv, film, articoli e corsi universitari un trigger warning, ossia un dispositivo di segnalazione in cui si avverte l’utenza che si sta per fare esperienza di un argomento che potrebbe far scattare un «grilletto» nelle persone che sono particolarmente sensibili a certe tematiche. Qualcosa di simile avveniva già da tempo nel mondo del cinema o dell’audiovisivo: non è raro vedere in opere del genere banner che comunicano agli spettatori la presenza di elementi che potrebbero turbare le persone più suscettibili. Un avviso molto frequente è quello che segnala l’utilizzo di certe tecniche di montaggio che possano causare problemi a chi soffre di epilessia. Ma, più recentemente, iniziano a comparire anche in contesti dove si trattano questioni legate ad altre patologie – il succitato Inside contiene un suicide warning che la piattaforma Netflix ha deciso di apporre in apertura del film.
Si tratta di una questione davvero complessa e delicata, che in questa sede si sta per forza di cose assottigliando (forse anche banalizzando) e che ha toccato l’Italia solo di striscio.
Il tema del trigger warning è giunto a noi, ad esempio, attraverso un libro di Neil Gaiman, edito da Mondadori nel 2016, intitolato proprio Trigger Warning. Leggere attentamente le avvertenze: una raccolta di racconti in cui il noto autore americano prova a dimostrare come sia impossibile produrre buona letteratura se si ha paura di far scattare grilletti nella mente di chi legge, essendo l’arte letteraria un campo estetico che di frequente ha come obiettivo proprio quello di scuotere fino a fare del male – «le storie», si legge nella quarta di copertina, «molto spesso turbano le nostre certezze, aprono porte che volevamo sigillate, ci tolgono il terreno sotto i piedi e ci scaraventano in luoghi oscuri e poco accoglienti».
Al contempo, l’espressione «trigger warning», che per molte persone italiane può sembrare del tutto nuova (se non inaudita), è già estremamente presente in Italia sui social media, in particolare sulle pagine in cui si prova a fare sensibilizzazione attorno ai temi delle patologie mentali – su tutte quelle connesse ai disturbi del comportamento alimentare e quelle dedicate alle persone affette da stress post-traumatico di vario tipo (violenze di carattere sessuale, bullismo ecc.).
Le persone che amministrano questi ambienti social sono abituate ad avvisare quando condividono immagini, post e articoli potenzialmente problematici. Ad esempio, se viene postata una fotografia che mostra un corpo malato, è possibile trovare l’immagine oscurata in quanto “contenuto sensibile”, affinché la persona possa scegliere se vederla o meno. Se si posta invece un contenuto scritto che può sconvolgere, è presente un’avvertenza. È un modo per dire «Attenzione, qui si parla (o si mostrano i sintomi di) un disturbo alimentare. Se questo tema può causare in te un trigger, evita di continuare la lettura».
Come deve comportarsi la letteratura?
Quest’ultimo aspetto spinge verso alcune domande – che, spoiler, qui non troveranno alcuna risposta. Questo gesto di cautela è necessario anche in letteratura? Siamo giunti a un punto in cui è necessario ripensare le modalità con cui un’opera artistica viene comunicata?
L’arte è uno strumento tanto forte e poderoso da poter fare del male. Per non limitare la libertà delle persone che creano le opere e, al contempo, tutelare il pubblico che da tali opere potrebbe risultare ferito, dovremmo forse cominciare a ipotizzare nuove formule paratestuali ed editoriali? Dovremmo iniziare a ipotizzare la presenza di un trigger warning esplicito e chiaro, in apertura di quelle opere che potrebbero danneggiare i processi psichici di chi le esperisce?
Dal dibattito in corso emerge un aspetto: il racconto di Bazzi (o meglio: anche solo il titolo scelto in sede redazionale) può aver fatto del male a qualcuno. È sufficiente reagire con un: «Pazienza, l’arte fa anche questo»? O sarebbe importante provare a rimodulare i modi in cui presentiamo alcune opere, tentando di tutelare i soggetti che da esse potrebbero riceverne dei danni?
Bene. Personalmente non lo so. So solo che mi sarei potuto trovare anche io nella situazione di Bazzi. Avrei potuto scrivere, ad esempio, un racconto in cui un uomo gode nel picchiare la donna che dice di amare, provando a indagare cosa succede nell’animo di certi soggetti tremendi. E, osservando quanto avviene attorno al racconto di Bazzi, mi rendo conto che avrei rischiato di fare del male a qualcuno che quella violenza l’ha subìta – male davvero, in senso clinico, non solo emotivo. Anche io avrei pubblicato un racconto simile senza alcun trigger warning perché fino a ieri, forse, avevo sottovalutato la forza dell’identificazione.
Non avrei mai ragionato su di un dispositivo di tutela del genere anche in letteratura. Io fino a ieri pensavo che la letteratura fosse proprio il territorio dove il grilletto può (deve) essere premuto, dato che questa forma artistica garantisce al contempo dolore e rifugio: un’immersione nel proprio nero più profondo ma anche un riparo, in quel cerchio magico che la buona scrittura dovrebbe saper costruire attorno a chi legge. E ora non so se è (ancora) così. So solo che questa faccenda mi farà riflettere a lungo, perché molto dolorosa su troppi livelli – per chi legge, per chi scrive, per chi combatte contro la propria mente, per chi prova a raccontare letterariamente quelle battaglie.
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