Le profezie sull’idolatria della forza e sul bisogno di radici di Simone Weil si fanno largo fra i saggi di Raniero La Valle, Edgar Morin e Paolo Rumiz, tutti orientati alla ricerca di un ancoraggio solido per il continente
- Un recente saggio di Raniero La Valle affronta con una straordinaria ampiezza e profondità di visuale il fallimento dell’Unione europea sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione.
- L’ analisi di La Valle sull’oblio e la sovversione delle ragioni costitutive dell’Ue si rivela simile a quella di Edgar Morin in un recente libro.
- Ma c’è un aspetto della visione e del sentire dello scrittore e politico cattolico che lo avvicina all’ultimo viaggio di scoperta esistenziale e spirituale di Paolo Rumiz attraverso l’Europa. Il pensiero di Simone Weil si fa largo attraverso questi testi.
“Ahi serva Europa”. Raniero La Valle ha pubblicato un articolo sull’Europa attuale (Il Fatto Quotidiano, 29 marzo) che non è solo un grido di dolore, è l’espressione di uno sguardo tanto lungo e profondo quanto la vita dall’alto della quale l’autore prende la parola.
Somiglia alle recenti lucidissime pagine di Edgar Morin (Di guerra in guerra, Cortina 2023); e in questa coniugazione di ampiezza di visuale e di esprit de finesse somiglia anche alla poetica ricerca di un filo risalente nei secoli, capace di ricucire il tessuto stracciato della memoria spirituale europea, intrapresa da Paolo Rumiz (Il filo infinito, Feltrinelli 2022).
Dove la precisione dell’anima sfiora il suo massimo, fino a raggiungere – forse – il lampo della profezia. Vedremo.
«Dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata», l’Unione europea «ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua identità culturale».
Constatazione di un’evidenza solare, al centro della riflessione di Raniero La Valle. Poteva fare altrimenti? Può ancora fare altrimenti?
Per rispondere a questa domanda serve una riflessione preliminare su quello che accomuna le tre voci citate: quella dello scrittore e politico cattolico, quella del centenario filosofo francese, e quella del grande viaggiatore e poeta, che si sentiva orgogliosamente senza radici e si è messo a cercare la Prima Radice d’Europa – dell’Europa che rinasce dalle rovine della civiltà antica, nei secoli a cavallo dell’anno Mille, quando i monasteri benedettini riformano lo studio di Dio e il lavoro della terra irradiandosi dalla dorsale appenninica di Norcia fino all’Irlanda e alla Polonia.
L’ampiezza di visuale
È l’ampiezza di visuale ciò che accomuna queste tre menti. E il pregio che ne deriva è proprio quello di non lasciarsi irretire nell’angustia mentale di chi non ha presente che il presente.
Questa limitatezza dello sguardo è semplicemente il contrario della presenza di spirito, che imita un po’ – solo un po’, naturalmente – lo sguardo di Dio (semmai ci fosse), il cui oggi è l’eterno. Già lo abbiamo visto con Morin, come il primo vantaggio dell’intelligenza a lungo raggio sul passato e il futuro sia di liberarci dalla mitragliante coazione a ripetersi delle figure della coscienza bellica, con il suo corredo di isteria, menzogna e soprattutto criminalizzazione del dissenso (da entrambe le parti).
La Valle aggiunge alla lucidità di Morin la forza dell’immagine, evocando il personaggio che dovrebbe rappresentare il progetto di pace che è a fondamento dell’Unione, Ursula von der Leyen, «pavesata con i colori di un paese in guerra».
E puntando il dito contro chi prima dell’autocrate russo è arrivato «a promettere armi a componenti nucleari»: il premier del Regno Unito, senza che il mainstream mediatico sollevasse un sopracciglio, prima di levare onde altissime di indignazione sulla contropromessa scimmiesca di Putin.
E ritroviamo La Valle in pieno accordo con Morin anche sull’alternativa possibile, in primo luogo nell’atteggiamento intellettuale e morale, e allora forse anche nelle strategie politiche e comunicative: se cerchi il vero, cercalo tutto.
Non ignorare le ragioni di nessuna parte, e soprattutto non ignorare mai la parte di male che le tue scelte possono comportare. «Non è stando appesi alle labbra e al "Crimea o morte” di Zelensky, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate….che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta a unirsi».
Perdonate se aggiungo io un’immagine che tutti oggi hanno negli occhi. Basta guardare la forma oscena, letteralmente, di un missile, nella sua eretta, orgogliosa protrusione, e pensare a come la carica di nichilismo demente che contiene farà deflagrare ancora innumerevoli città in un pulviscolo d’ossa, sangue e pietrame, inesorabile come il più stupido dei destini – per sentire un insulto allo stomaco quando i nostri governanti vantano gli accordi economici per la ricostruzione dell’Ucraina, già in stato avanzato di negoziazione. O non sarà un avanzato stato di decomposizione dell’umana sinderesi?
Un’idea luminosa
Ma infine, è su un ultimo e più nuovo, più luminoso aspetto della riflessione di Raniero La Valle che vorrei soffermarmi, dove la precisione del cuore aumenta e aumenta anche l’affinità – invece – con la ricerca di Paolo Rumiz che ho evocato sopra. Non per caso.
La Valle cita i padri nobili di quell’Europa che ha smarrito le sue ragioni: Spinelli e Spaak, Schuman e Monnet, Ursula Hirschmann, Adenauer, De Gasperi… e naturalmente avrebbe potuto citare anche Eugenio Colorni, di cui Repubblica (28 marzo) ha pubblicato un articolo scritto per l’Avanti, allora foglio clandestino, nel 1944, un necrologio del suo giovane collaboratore Giuseppe Lopresti, che pare un presentimento della sua stessa morte, avvenuta due mesi dopo per mando dei fascisti di una banda repubblichina, e non perché era italiano ma perché era antifascista.
Ma soprattutto era fra le menti che concepirono e svilupparono, a Ventotene, il pensiero della nuova Europa, democrazia sovranazionale e porta verso un mondo dove il diritto si incarni in istituzioni davvero capaci di governare la forza, invece di esserne governate.
Però è un’altra autrice che La Valle cita, accanto a questi fondatori dell’Europa che stiamo uccidendo: Simone Weil. E questo spiega l’idea luminosa su cui vorrei concludere.
È una luce gettata sull’atlantismo europeo, sul quale spesso i discorsi divengono opachi quanto le passioni che li nutrono. C’è un aspetto critico che Raniero condivide con gli «esperti di geopolitica», denunciando l’avvilente vassallaggio in cui sembra degenerata la relazione con gli Stati Uniti, o con una loro politica di «bulimia militare» dichiaratamente dominata dall’obiettivo (alquanto primitivo, per non usare termini peggiori) «che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo superi, ma nemmeno che eguagli la potenza americana».
È questo aspetto inquietante che, «se facesse una politica meno suicida», l’Europa potrebbe correggere, diventando il vero competitor invece che il consenziente vassallo, «per costruire insieme "n mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia».
La vera tragedia
Come? È qui che certamente La Valle si lascia ispirare da Simone Weil. L’Europa è nata «con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a sud, a Israele e alla Palestina e al mondo arabo, all’est, alla Russia e alla Turchia…».
Niente spiega questa tesi meglio di un prezioso libretto che raccoglie le riflessioni di Simone Weil Sul colonialismo-– Verso un incontro fra occidente e oriente, (a c. di D. Canciani, Medusa 2003), poi confluite nelle sue pagine sui compiti di una costituente per l’Europa, le ultime, scritte nell’imminenza della morte in esilio a Londra (1943), che insieme alla grandiosa opera sul Radicamento (e lo sradicamento di altre civiltà in cui il colonialismo consiste) individuano la condizione vera di una rinascita della civiltà europea.
Una parte della tesi di Simone coincide con la critica spinelliana della fondazione nazionale delle democrazie. L’altra parte va oltre, e inserisce una coordinata temporale nell’orizzonte cosmopolitico di radice kantiana: la profondità del passato.
È la perdita del passato la vera tragedia umana. Ed è questa la tragedia che incombe sull’Europa post bellica. Nulla di più lontano da un tradizionalismo etnico-culturale in questa visione.
Il passato è il deposito di “tutti i tesori spirituali” delle civiltà che l’Europa coloniale ha sradicato, a oriente, a sud, e anche entro sé stessa. Contiene il miracolo greco, il cristianesimo evangelico, la filosofia arabo-musulmana, la spiritualità catara, la saggezza buddista e quella taoista…
È in oriente la radice spirituale della civiltà europea: «La civiltà europea è una combinazione di spirito orientale con il suo contrario, combinazione in cui lo spirito d’oriente deve entrare in una proporzione abbastanza considerevole. …Abbiamo bisogno di un’iniezione di spirito orientale».
Per questo una completa americanizzazione rappresenta un pericolo molto grave – la perdita del passato, l’avvitamento completo sul presente. Ossia – conclude assai profeticamente Simone – la ricaduta nell’idolatria che scrive i nomi di dio («i nostri valori») sulle bandiere e ne fa «parole assassine», menzogne come quelle che hanno in effetti giustificato le disastrose guerre americane fino a ieri.
La «perdita del soprannaturale» diventa l’idolatria della forza: la politica dell’egemonia mondiale.
Volete un modo più piano, più affabile di dire la stessa cosa? Paolo Rumiz si chiede come sia possibile «non lasciarsi contaminare dal nulla, dalla liquidazione dell’invisibile». E nel momento in cui l’utopia dei nonni tracolla nel sovranismo dei nipoti, e la stessa Ue dimentica che l’Europa nasce come spazio di esodi continui, e insensatamente la blinda, lui riparte da Norcia, culla della prima contaminazione generativa di oriente e occidente: la Regola di San Benedetto, minuziosa disciplina ordinatrice dello spazio e del tempo, articolazione della forza normativa del suo “ora et labora”.
Riparte dai paesi distrutti dal terremoto del 2017. Anzi: non dal terremoto. Ma dalla “perdita della memoria”. L’idea è la stessa. A Norcia vede, intatta in mezzo alla distruzione, la statua di un uomo venerabile che indica col braccio teso qualcosa fra cielo e terra. Porta la scritta: San Benedetto, Patrono d’Europa. Cosa indicava quel gesto diretto alle macerie circostanti? Non forse, «una terza catastrofe in cent’anni, necessaria a uscire dal tunnel autodistruttivo»? Come nel 1945.
Simone Weil fu profetica quanto al bagno di sangue che sarebbe costata una decolonizzazione lacerante, rivolta solo all’avvenire, senza il tentativo di «rientrare in comunicazione con il nostro passato millenario», attraverso l’amicizia reale «con tutto ciò che in oriente ha ancora radici».
Non ci resta che sperare che non si avveri la profezia di San Benedetto e di Rumiz. O pregare. O agire perché non si avveri.
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