Nell’ottobre del 2013, grazie a un felice invito del Vancouver Writers Fest, andai in Canada. Alice Munro era stata insignita del Premio Nobel pochi giorni prima della data prevista per il mio arrivo a Calgary, tappa iniziale del viaggio. Ricordo che cercavo segnali di quel riconoscimento ovunque, nelle librerie dell’aeroporto, nei drugstore, nei manifesti pubblicitari. Mi aspettavo grandi foto di Munro dappertutto e pile dei suoi libri alte come grattacieli. Invece no. Zucche, fantasmi, ragnatele, teschi, il macabro carnevale di Halloween dominava incontrastato i punti vendita del terminal, come se niente fosse. Eppure Alice Munro aveva vinto il Premio Nobel, il secondo per il Canada, dopo quello di Saul Bellow, e il primo per la forma racconto. Mi sforzavo di interpretare il fenomeno come una manifestazione di riservatezza canadese, di eleganza culturale, ma la verità è che ero molto sorpresa, e anche un po’ indignata. Non riuscivo a levarmi dalla testa la domanda retorica che dà il titolo a una raccolta di racconti di Munro e che serpeggia insidiosa in molte delle sue storie: Chi ti credi di essere? E mi chiedevo quale vetta letteraria avrebbe dovuto scalare Alice Munro per far tacere quella voce almeno per una volta. Almeno per il Nobel.

I miei dieci giorni canadesi furono magnifici: tutti quei laghi, tutti quegli aceri, tutti quei poeti. E, prima di ripartire arrivò anche un parziale rimedio alla mia delusione. A offrirmelo fu un giornalista del Toronto Star di nome David McFarlane che mi disse: «Quando ho saputo del Nobel a Munro, ho preso un suo libro, mi sono seduto, e per due ore ho letto la motivazione del premio in un suo racconto. Uno a caso». Forse non mi bastò del tutto, ma mi piacque.

Capitolo a sé

È questo, che ho voluto fare quando ho avuto la notizia che il lungo silenzio di Alice Munro si era trasformato in un silenzio definitivo. Ho preso il primo e l’ultimo dei suoi libri, Danza delle ombre felici e Uscirne vivi e mi sono seduta a leggere. Non proprio a caso, in verità. Ho voluto ascoltare l’indicazione di Munro riguardo alla fine del suo raccontare. E così sono andata a rileggere Finale, il quartetto di testi che chiude l’ultima raccolta, una sessantina di pagine di congedo.

Munro li introduce così: «I quattro pezzi finali di questo libro non sono proprio storie. Formano un capitolo a sé, autobiografico nel sentire sebbene non, talvolta, interamente nei fatti. Credo siano le prime e le ultime cose – e le più private – che ho da dire sulla mia vita».

Il primo si intitola L’occhio. (Solo un pensiero, qui, da traduttrice: una storia che porta questo titolo non può lasciare indifferente chi sa, ancor prima di cominciare, di non poter conservare la semplice potenza di una parola – eye – che, pronunciata ad alta voce o nella mente, rimanda, sì, all’occhio, ma anche all’io – I –, mescolando in una sillaba soggetto e oggetto, punto di vista e voce narrante. Per fortuna, chi traduce, a queste perdite irreparabili è abituato.) C’è dunque L’occhio che si apre così: «Quando avevo cinque anni i miei genitori di punto in bianco fecero un bambino, cosa che secondo mia madre avevo sempre desiderato».

Un inizio in grado di suscitare in me una forte emozione di lettrice, perché queste due righe pullulano di racconti. Succede infatti un movimento inverso con i quattro pezzi finali di Munro; non sarà, come troppo spesso è accaduto, un cercare la vita dentro le sue storie, bensì un riconoscere le sue storie nella vita, in quella scarna concessione al memoir che Munro ci ha consegnato uscendo di scena. Come un saluto, ancora una volta ironico e formidabile: «Tutto ciò che avete letto nelle mie circa duecento storie arriva da qui».

Il primo testo attacca con un ballo di paese e in poche pagine trascina la vecchia-bambina che racconta di fronte all’oscenità della morte, al disorientamento e al terrore di dover posare per la prima volta lo sguardo su un cadavere, e per giunta un cadavere scandalosamente giovane.

Il secondo, intitolato Notte, passa dalla malattia vissuta come occasione per acquisire prestigio e privilegio, come una sorta di immeritata vacanza dagli obblighi odiosi dell’organigramma scolastico e delle faccende domestiche, all’esperienza dell’insonnia. E, nella notte insonne della vecchia-ragazza che racconta, avviene l’incontro con il padre, anche lui sveglio, fuori di casa a fumare. Il dialogo tra padre e figlia si compie in quel tempo sospeso che precede l’inesorabile ragionevolezza del giorno; un breve spazio per verità che devono rimanere sigillate nel buio incerto dell’alba e che diviene strumento di una guarigione inattesa. Il padre di questo testo è lo stesso, o comunque l’ispiratore del protagonista di Botte da re, lo stesso padre i cui metodi educativi contemplavano l’uso delle cinghiate. Qui, Munro, conclude il pezzo dicendo: «Tuttavia all’alba di quella mattina mi diede esattamente ciò di cui avevo bisogno e che peraltro avrei di lì a poco dimenticato. ... Da allora in poi io riuscii a dormire».

Sulla soglia

Il terzo pezzo si intitola Voci e propone nuovamente il ricordo di un ballo al quale la vecchia-bambina che racconta accompagna la madre. Rileggerlo ha richiamato alla mia memoria una riflessione nata traducendo Munro, ma anche Jane Austen. Ogni autore torna su temi o situazioni che impongono la loro presenza storia dopo storia, romanzo dopo romanzo. Ma non è meno importante individuare che cosa, in una scrittura, non c’è. Ebbene, se mi si chiedesse che cosa non c’è in Alice Munro risponderei: l’innocenza. Non sono innocenti gli uomini naturalmente, né le donne dentro le quali si stratificano desideri e vergogne, rimorsi, accanimenti e paure. Ma non lo sono i bambini, altalenanti tra il ruolo di vittime e quello di carnefici crudeli, e neppure i vecchi, con i loro decrepiti egoismi e i loro bisogni inascoltati. Non lo sono ovviamente le parole, capaci di mettere a nudo mire di una penosa goffaggine, come pure, al contrario, di denunciare lacune scolastiche non meno che sociali. Non lo sono le cose, che si tratti di case o di saponette, di odori, indirizzi, lettere o di una gelatina di frutta ancora calda. E, magistralmente, non lo sono i vestiti, come questo che si trova in Voci: «L’abito di mia madre non era fatto in casa. Il più bello che avesse: troppo elegante per la messa e troppo festoso per un funerale e quindi quasi mai indossato. Era in velluto nero, con manica a tre quarti e scollo alto. la meraviglia di quel vestito era la pioggia di perline d’oro, d’argento e di varie altre tinte cucite su tutto il corpetto, perché luccicavano cambiando colore a ogni movimento, o anche solo a ogni respiro».

Non sono innocenti le voci disincarnate dei giovani uomini che, seduti sulle scale, blandiscono le cosce e il pianto di una ragazza. Il loro premuroso bisbigliare si imprime nelle fantasie "per il momento non propriamente erotiche" della vecchia-bambina che racconta. I soli a salvarsi sono, forse, alberi e animali, testimoni della vita umana sotto il cielo bianco del Canada orientale carico della sua tantissima neve.

Infine c’è il pezzo che dà il titolo all’intera raccolta Uscirne vivi. Qui Munro torna a suonare il tempo alla sua fisarmonica, dilatandone e comprimendone più volte il respiro. Qui la vecchia che racconta è anche neonata, come il Nabokov di Parla, ricordo; gli spunti narrativi si moltiplicano; compare la digressione sull’episodio di un’amicizia infantile dai risvolti vergognosi; compaiono entrambi i genitori, il padre in veste di allevatore di volpi destinato al fallimento, la madre in quella di dispensatrice di giudizi inappellabili.

In nessuno dei quattro testi autobiografici «nel sentire, sebbene non, talvolta, interamente, nei fatti» compare mai la scrittura.

Finale è una piccola raccolta di testi liminali, ciascuno dei quali abita una soglia e si consegna al lettore come il lievito madre di storie perfette.

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