In concomitanza col secondo anniversario della morte della ragazza-simbolo della battaglia delle donne di Tehran, esce il 19 settembre al cinema La bambina segreta, secondo lungometraggio di Ali Asgari, presentato alla Berlinale nel 2022. Un film che non è né manicheo né ruffiano, visivamente fresco, non piagnucolone, con una parola – responsabilità – che fa per tutti da alibi alla paura
Per evidenti ragioni Benjamin Franklin è tornato di moda. Nomi autorevoli hanno twittato a ripetizione una sua lungimirante gemma politica: «La democrazia è due lupi e un agnello che decidono cosa mangiare a colazione». Peccato che il seguito della citazione, di questi tempi, possa suonare pericolosamente gradito ai devoti della NRA (National Rifle Association of America) e agli attrezzati seguaci MAGA che vigilano sull’esito delle presidenziali: «La libertà è un agnello bene armato che contesta il voto». Ma sto divagando.
Ho pensato a Benjamin Franklin guardando un film che racconta di un agnello femmina col suo cucciolo e del branco di lupi (non due soltanto) con cui si misura. Stiamo riflettendo dolorosamente sulla natura, sui limiti e sulla tenuta delle democrazie occidentali, ma c’è di peggio. E tutto congiura perché su questo peggio – interamente assorbiti dai nostri poco luminosi trend di casa – diventiamo ogni giorno sempre più distratti e meno informati.
Senza ruffianerie
La bambina segreta (ma il titolo inglese fedele a quello originale, Until Tomorrow, è molto più bello), in sala dal 19 settembre con Cineclub Internazionale Distribuzione, parla di questo peggio, ma non è un film nuovo. È il secondo lungometraggio di Ali Asgari, che lo ha portato alla Berlinale nel 2022. Sviluppava un suo corto del 2014, La bambina, in selezione ufficiale a Venezia. Esce adesso in non casuale concomitanza col secondo anniversario della morte di Mahsa Amini (16 settembre 2022), ragazza-simbolo della battaglia delle donne iraniane, e col patrocinio di Amnesty International Italia. Ma nessuno va al cinema per puro dovere civile.
Asgari appartiene alla leva dei filmaker iraniani quarantenni, fa cinema sui millennials e sui loro conflitti specifici con la doppia morsa dei poteri istituzionali e della cultura patriarcale radicata nelle famiglie. Dice che «la dittatura è una prigione soprattutto per loro». Ha scelto di restare in Iran, anche se oggi le maglie sono ancora più strette: fuori dalle produzioni approvate dal governo puoi solo girare underground, quattro soldi e zero permessi. La bambina segreta non è solo un viaggio di 85 minuti dentro una società nemica di ogni diritto civile: è bello, è martellante ed è miracolosamente esente da tutte le ruffianerie strappalacrime che guastano tanto nostro cinema.
La trama
La Feresteh del film (Sadaf Asgari, nipote del regista e già interprete del suo film di debutto) è una ragazza indipendente, lavora a Teheran per una tipografia, ha un proprio striminzito bicamere in affitto. È anche madre single, e clandestina, di una bebè di due mesi. Ma i suoi genitori non sanno, e non devono sapere, di essere nonni. Quando annunciano il loro irrevocabile arrivo dalla provincia l’emergenza è drammatica. Un problema alla volta, ma tutti spinosi. È un problema piazzare tra le vicine i sacchi con culla, vestiti e pannolini, perché a tutte manca lo spazio e qualcuna avvisa l’amministratore. Ma diventa un incubo trovare chi custodisca la bimba fino al giorno seguente, quando si scopre che l’avvocata di diritti civili disposta a farlo è stata appena arrestata dalla polizia.
L’amica del cuore Atefeh (Ghazal Shojaei), universitaria, non può ospitarla alla Casa dello studente. Ma affiancherà Feresteh in tutta la sua infinita odissea. Solidarietà femminile, sì, ma senza retorica, stemperata dalle confidenze scherzose nei lunghi tragitti in autobus. Atefeh vorrebbe emigrare in Alaska, perché non ci sono iraniani. «Anche là troverai iraniani che hanno aperto un chiosco di kebab e sono tuoi parenti» ride l’amica. E ci sono i biberon itineranti nei bar, chiedendo un po’di acqua calda al bancone. C’è un pesciolino inutile comprato per non dare nell’occhio, compagno di viaggio finché un ragazzino sconosciuto non lo desidera.
I “no” sono tanti, e mai ripetitivi: la paura e il peso del sospetto ubiquo e incombente assumono mille colori diversi. Il padre della bambina, che ancora rinfaccia a Feresteh di aver rifiutato l’aborto ma è a sua volta sotto il tallone del suo padre-padrone, nel suo piccolo qualcosa fa. Le carica tutte sulla moto e le presenta a un’amica, infermiera d’ospedale. Purtroppo c’è un caporeparto, il Potere Maschile in corsia. La bambina è una fuorilegge, è illegittima, quindi non ha documenti, quelli falsi costano troppo per le tasche della madre. Il Boss ospedaliero (Babak Karimi, il giudice di Una separazione di Asghar Farhadi e en passant mio tradizionale incontro festivaliero) sarebbe disposto però a chiudere un occhio, in cambio di prestazioni sessuali.
Il senso della parola responsabilità
La bambina segreta non è un film manicheo, non è i-maschi-sono-tutti- cattivi-e-complici-della-dittatura, c’è un portantino che a suo rischio carica le due (pardon: tre) sull’ambulanza per farle scappare dall’ospedale. L’estrema chance è la Casa dello Studente: chiudere la bebé in una borsa, sperare che non emetta vagiti importuni e non soffochi, passare davanti a una guardiola da carcere che pretende controlli e documenti. Finirà così? Sarà la fedele Atefeh, che rischia l’espulsione dall’Università e il suo intero futuro, a custodire per quella notte cruciale la bambina segreta?
C’è da sapere che visivamente il film è fresco, intenso e di felici contrasti: il fagotto rosa della creatura spicca sull’uniforme, opprimente grigiore di Teheran come un lampo di vita ribelle. Sulle tutine si legge bene la marca Chicco: evviva, il product placement, se c’è, ogni tanto serve a finanziare qualcosa di buono. E in un piano sequenza interminabile il volto di Feresheh, sul taxi che a notte la trasporta verso casa e verso i genitori in attesa della figlia doverosamente illibata, registra in progress la nuova coscienza delle donne che in questi anni in Iran sono scese in piazza, picchiate a sangue, arrestate, assassinate a norma di legge. C’è una parola, responsabilità, che nel corso del film ha fatto per tutti da alibi alla paura. È responsabilità decidere della propria vita, rifiutare i compromessi e le maschere di convenienza, affrontare lo scontro. Né scene madri né happy ending, finale aperto. Il cinema da piagnucoloni non serve a niente e a nessuno, e non produce emozione. Serve pensare, scegliere e fare. E farlo bene. Appunto.
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