C’è questo disco brutto, ma molto, molto brutto. Molto brutto. Forse il disco più brutto dai tempi delle caverne. Roba da non crederci che qualcuno abbia potuto perfino pensare di inciderlo un simile orrore, e che qualcun altro poi ci abbia dedicato del tempo per produrlo, impacchettarlo, farlo arrivare nei negozi. Eppure ci è arrivato.

E decenni dopo, facendo giri immensi, non poteva che finire, conoscendo la sua curiosità giocosa e libera e priva di pregiudizi, tra le mani e quindi nella discoteca di Daniele Cassandro, giornalista di Internazionale con vasta e variegata cultura, anche e soprattutto musicale, il quale Cassandro lo ha poi inserito tra i 40 album di cui racconta le storie nel suo libro con gran titolo, Dischi volanti, e sottotitolo: 40 album alieni da Duke Ellington a Lady Gaga (Edizioni Curci, 17 euro ben spesi se volete fare un regalo di Natale che vi farà fare bella figura nonostante la copertina susciti qualche perplessità).

È leggendolo che ho scoperto sia dell’esistenza di un simile obbrobrio musicale sia della storia favolosa che c’è dietro. Una storia da farci un film, ed effettivamente lo hanno fatto, nel 2016.

Raccontare l’alto e il basso

La storia di quello che è «forse il disco più brutto della storia» è solo una delle quaranta perle di questo libro collier. Oggetto che in libreria si trova sullo scaffale “musica”, perché, a prima vista, parla indubbiamente di musica ma poi, leggendolo, si scopre che quella è solo una copertura, una bellissima scusa per raccontare storie variopinte, a volte frivole altre dolorose o commoventi, drammatiche, esilaranti.

Cassandro le sa narrare e, come un Tommaso Labranca senza l’amarezza, riesce a intrecciare highbrow e middlebrow, alto e basso, pop, trash, kitsch e camp, avendo il dono di quelli bravi, pifferai magici che è bello seguire, anche quando dovessero farti precipitare in un burrone, perché sai che comunque sarà un bel volo. Certo, servono cultura e passione, uno sguardo penetrante nelle cose del mondo e degli uomini, un serio senso del ridicolo, e anche un po’ di crudeltà affilata mista a empatia e compassione e pietà, ma sincere.

Compassione e pietà, soprattutto, perché in un’epoca di best of, in cui il successo ha un gran successo, Cassandro fa la mossa del cavallo (di razza), scarta ed esce dall’autostrada del trionfo portandoci al galoppo su stradine secondarie, a volte senza uscita, e sentieri che sulle mappe dei nostri smartphone non sono nemmeno segnati ma percorrendo i quali poi ci si ritrova ad ammirare i paesaggi inconsueti di «album minori, lost album, fiaschi da rivalutare o piccole gemme dimenticate».

Inciampi e rinascite

Con la scrittura esatta e leggera di chi non fa mai pesare quanto ne sa (una vera rarità sullo scaffale della musica, ma appunto: è uno scaffale che gli sta molto stretto), Cassandro, narrando di inciampi, rinascite, fallimenti, alla fine, come ogni vero scrittore, non fa che parlare della natura umana, di esseri come noi che, incidentalmente, sono anche degli artisti, a volte mostrandoci quanto ci sono vicini nel loro essere fallaci, incongruenti, difettosi, vanitosi, insicuri, spavaldi, più spesso evidenziando la distanza abissale che ci separa proprio in virtù del loro essere artisti e a volte perfino geni.

Sono storie che intrecciano il loro cammino con quello della Storia, perché Cassandro le colloca nel loro tempo, contestualizzandole, in modo che le prime aiutino a comprendere il secondo e viceversa, in un gioco di sguardi che funziona, perché «intorno ai dischi si addensano così tante variabili storiche, sociali, estetiche, politiche ed etniche che riannodare tutti questi fili diventa un lavoro affascinante e molto divertente».

Che Cassandro si sia divertito a scriverle lo si capisce già solo odorando le pagine. Divertente è per noi leggerle. Tanti i brividini di piacere nello scoprire, seguendolo nei suoi détour, che quel filo lì va ad annodarsi con quel filo là, chi l’avrebbe mai detto, o che unendo il puntino qui addirittura con quei puntini laggiù, poi viene fuori la frase “ma pensa te”.

La casella dell’orrore

Cassandro ci fa entrare nella sua wunderkammeretta piena di rarità e curiosities e gioiellini raggruppati in sette capitoli che non seguono nessuna logica se non quella dei suoi gusti proteiformi, un cabinet in cui c’è di tutto: vecchie glorie del musical che si buttano nella musica elettronica; cantanti nere che si riappropriano del country strappandolo ai redneck 50 anni prima di Beyoncé; star all’apice del successo che fanno scelte azzardate che si riveleranno mosse vincenti o cazzate clamorose; l’ennesima conferma che tutti hanno un lato oscuro, perfino, anzi soprattutto i film animati di Walt Disney.

Ci sono autosabotaggi e drammi adolescenziali, ci sono le gesta di quelli e quelle a cui l’epoca in cui vivevano stava così stretta che ne hanno allargato i confini, si fa la conoscenza di mistici che quei confini li hanno perfino oltrepassati per dare un’occhiatina aldilà e ci si imbatte in quelli eccentrici, che sui confini ci stanno in equilibrio precarissimo, sospesi sopra un baratro «sul filo pericoloso del cringe», quelli su cui il giudizio, col tempo, fa tutto il giro e dalla casella dell’orrore arriva non dico all’apprezzamento ma almeno alla comprensione delle ragioni di chi stravagante non lo è per posa ma per l’ineluttabilità di essere ciò che non si può far a meno di essere. Come l’artista che ha inciso quell’album, il più brutto della storia.

Perché sì, alla fine Cassandro non solo concede l’onore dello status di artista alla responsabile di quello scempio (scrive: «È stata forse la prima artista, perché artista a suo modo è stata, a dimostrare che il talento, in determinate condizioni, può essere un semplice accessorio se non addirittura un fardello inutile», e guardandosi attorno, oggi, non si può negare che il tempo le ha dato ragione) ma, con un coraggio che Shackleton scansate proprio, si imbarca «nella missione impossibile di salvare quello che forse è il disco più brutto della storia». Spoiler: ce la farà.

La voglia di ascoltare

Partendo «dall’assunto che un album è come un libro che ci racconta una storia e non sempre i libri sono belli, ben scritti o edificanti», Cassandro ci conduce fino a pensare l’impensabile, a trovare un senso a un disco che un senso non sembra proprio avercelo, ci fa flirtare con l’orrore come piccoli colonnelli Kurtz, e noi felicissimi.

Anzi, ne vorremmo ancora. Provandolo lui per primo, riesce a farci provare amore per la musica e l’arte perfino qui, al cospetto di questo gesto artistico che sembra invece avere come unico obiettivo quello di dirottare il disco per farlo volare fino a schiantarsi proprio contro le torri gemelle dell’arte e della musica. E se ci riesce con questo, immaginate con gli altri dischi. Provateci: dopo aver letto le due paginette e mezza di questa storia, provateci a resistere alla tentazione di correre a cercarlo e poi ascoltarlo questo disco terrorista.

Io l’ho fatto: è un’esperienza straziante e talmente oltre il grottesco che quasi non fa ridere («si ride, certo, ma di chi si ride?», si chiede infatti l’autore: «Di lei che canta così male o di noi stessi che l’ascoltiamo?»). L’ho avvertito quaranta volte, leggendo le storie di questi quaranta dischi volanti, il desiderio di ascoltarli (o riascoltarli). Di pensare extraterrestre portami via.

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