Nell’ampio elenco di questioni che contribuiscono a creare un clima di forte ostilità tra India e Pakistan, da qualche anno sembra essersi aggiunto un nuovo elemento: il cibo. Nello specifico, l’oggetto del contendere è diventato il basmati, il famoso riso aromatico dai chicchi allungati proveniente dalla vasta pianura del Punjab, un territorio di confine a cavallo tra i due paesi e per questo frutto da sempre di rivendicazioni dall’una o dall’altra parte.

A partire dal 2020 la disputa si è riaccesa, spostandosi però sul terreno neutrale di Bruxelles, dove Islamabad ha presentato una opposizione formale alla Commissione europea contro la richiesta di Nuova Delhi di ottenere l’indicazione geografica protetta (Igp), proprio per quella varietà di riso tanto cara ad entrambi.

La mossa indiana

La mossa dell’India avrebbe dato al paese il diritto esclusivo sull’utilizzo del nome della varietà (cosa che per il Pakistan sarebbe stata inaccettabile), ma avrebbe avuto anche una serie di altri vantaggi, primo fra tutti la salvaguardia del volume delle proprie vendite.

L’India è infatti il primo esportatore al mondo di basmati, ma da qualche tempo il Pakistan si è aggiudicato la fetta più grande del mercato in Europa dove nel 2022 sono state esportate più di 200mila tonnellate di riso basmati pakistano, rispetto alle circa 100mila provenienti dall’India.

Questa sproporzione è dovuta al maggior rispetto da parte del Pakistan degli standard Ue in merito all’utilizzo di pesticidi, che lo hanno trasformato nel canale preferenziale del continente. Il grosso problema dell’India sta nel fatto che le sue varietà di basmati sono frutto di una selezione genetica che le ha portate ad avere un rapidissimo sviluppo, con un conseguente aumento notevole di produzione, ma allo stesso tempo ha reso le piante più fragili e sensibili alle malattie, tanto da richiedere l’utilizzo di sostanze come il triciclazolo, il cui impiego in Europa è stato di molto limitato a partire dal 2017.

Revisionismo

Se questa può essere una delle spiegazioni della mossa dell’India, non si può negare che ci sia almeno un altro grande motivo dietro questa scelta, di ordine più simbolico rispetto al precedente. A partire dal 2015, quando il più imponente esempio di processo democratico al mondo ha consegnato la vittoria nelle mani del Bjp, il partito nazionalista indiano guidato dall’attuale primo ministro Narendra Modi, è ormai piuttosto evidente che il governo dell’India stia portando avanti una campagna basata sul revisionismo storico, al fine di creare una nuova nazione epurata da ogni rimando alle comunità musulmane, trasformando l’identità del paese da laico ad induista e colpendo i diritti delle minoranze.

Le azioni intraprese a questo scopo sono molte, dal sostenere ricerche che provino il fondamento storico delle antiche scritture indù, al credere che «il vero colore della storia Indiana sia lo zafferano», facendo riferimento proprio al colore emblematico del movimento nazionalista, passando per il revocare lo status speciale al Kashmir (unica regione indiana a maggioranza musulmana), costruire un tempio dedicato dio Rama in un luogo dove in passato sorgeva una moschea brutalmente abbattuta da gruppi nazionalisti o, come visto nell’ultimo G20 del settembre 2023, provare a cambiare il nome del paese in Bharat, più affine alla tradizione induista.

Questo atteggiamento è così pervasivo che non ha risparmiato il cibo, che in generale ben si presta agli usi per scopi nazionalisti, in particolar modo se si tratta di richiedere certificazioni come l’Igp, che attesta la qualità di un prodotto sulla base del fatto che almeno una delle fasi di lavorazione dello stesso avvengano in un determinato luogo, e che questo sia il motivo che determina una maggiore qualità rispetto ai prodotti concorrenti.

La collaborazione passata

Nel caso del riso basmati, la certificazione richiesta dall’India avrebbe donato al paese un indiscutibile vantaggio reputazionale, legando l’immagine del prodotto alla propria tradizione, offuscando irrimediabilmente il paese nemico; una mossa utilizzata, forse, anche come ritorsione in seguito all’attacco terroristico di Pulwama, avvenuto per mano pakistana nello stato indiano del Jammu e Kashmir, nel febbraio 2019.

L’avversione storica dei due paesi però ha origini ben più antiche, che si potrebbero ricostruire a partire da quella che viene ricordata come “la partizione” del 1947, ovvero la suddivisione dei due paesi, su base religiosa, seguita all’abbandono dei territori da parte dell’impero coloniale britannico. In quell’occasione milioni di musulmani si diressero verso il Pakistan, mentre milioni di indù e sikh verso l’India, in quella che oggi è ricordata come una delle più grandi migrazioni del ventesimo secolo.

Quelle giornate furono caratterizzate da episodi di violenza gravissimi da ambe le parti, e si calcola che più di un milione di persone persero la vita. Le enormi tensioni tra i due popoli, nonostante la divisione, non si appianarono mai del tutto e sfociarono poi in una serie di conflitti conosciuti come le guerre indo-pakistane.

Eppure, proprio sulla questione del riso basmati, i due paesi in passato erano riusciti a collaborare in maniera fruttuosa. Quando nel 1990 un’azienda americana, la Rice Tec, tentò di depositare un brevetto sulle varietà di riso chiamate “basmati” sviluppate e coltivate in Texas, i governi indiano e pakistano si opposero insieme, riuscendo a vincere la causa legale. Da quel momento i due paesi detengono l’esclusiva per l’utilizzo del nome basmati. Sulla scia di questa collaborazione proficua, ci fu anche un primo tentativo di presentare alla Ue una richiesta di Igp congiunta, da cui però l’India scelse di ritirarsi a causa degli attentati di Mumbai del novembre 2008, coordinati da militanti provenienti dal Pakistan.

Un esito non scontato

Il 23 febbraio del 2024 la Commissione europea ha pubblicato in Gazzetta Ufficiale una nuova domanda di registrazione per il Basmati Igp, questa volta proveniente dal Pakistan. Al momento quindi le due richieste stanno procedendo in maniera autonoma, in attesa che la Commissione si pronunci su entrambe. Gli esiti non sono scontati, e in passato l’Europa è riuscita anche a fare da mediatore tra diverse questioni di certificazioni transfrontaliere come nel caso, emblematico, della Dop conferita all’halloumi cipriota.

Nel frattempo, da una parte come dall’altra del confine, il basmati continuerà ad essere consumato con regolarità da tutte le persone, in piatti come il biryani, la perfetta rappresentazione del mix culturale tra i due paesi, facendo la sua comparsa sulla tavola in particolare durante celebrazioni e matrimoni, per via del simbolismo legato alla pietanza, che richiama abbondanza e convivialità. Il gastronazionalismo è fermo, mentre la vita continua a scorrere.  

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