- Non credo sia capitato solo a me, guardando in tivù le prime immagini dei fertili campi ucraini sepolti dall’acqua per il crollo della diga di Nova Khakovka, di richiamare alla mente la pianura romagnola alluvionata solo poche settimane fa.
- Da una parte una grave calamità naturale sia pure accentuata da azioni umane di diversa portata (cementificazione, mancata pulizia dei fiumi, riscaldamento globale)
- Dall’altra una crudele e deliberata azione di guerra tesa a utilizzare la natura antropizzata come arma e ostacolo per l’esercito nemico – potenzialmente molto più devastante.
Non credo sia capitato solo a me, guardando in tivù le prime immagini dei fertili campi ucraini sepolti dall’acqua per il crollo della diga di Nova Khakovka, di richiamare alla mente la pianura romagnola alluvionata solo poche settimane fa.
Analogia dovuta, certo, all’irresistibile vocazione spettacolare dei media ma non per questo meno impropria e inopportuna; da una parte una grave calamità naturale sia pure accentuata da azioni umane di diversa portata (cementificazione, mancata pulizia dei fiumi, riscaldamento globale), dall’altra una crudele e deliberata azione di guerra tesa a utilizzare la natura antropizzata come arma e ostacolo per l’esercito nemico – potenzialmente molto più devastante.
Eppure, nel groviglio quotidiano del nostro personale, razionale ed emotivo cavarcela nel mondo, le due immagini rischiano di apparirci come appartenenti a una medesima classe; spesso usiamo metafore belliche per rappresentarci la natura che “si ribella” al nostro violentarla, parliamo di “strategia green” o di “militanti per il clima” eccetera – e viceversa, per poco ancora che la guerra in Ucraina diventi una guerra di posizione, finiremo per considerarla poco più di un fatto di natura, una cosa che semplicemente c’è; come considereremo la fame indotta in Egitto o in Ciad dalla mancata consegna del grano ucraino un caso particolare dell’endemica “fame africana”.
Come ammiriamo i moai dell’Isola di Pasqua senza considerare che sono la causa e il frutto di un folle disboscamento da parte degli antichi abitanti.
Ipnosi
Il rapporto tra egoismo e progresso, tra desiderio e responsabilità, ha accompagnato la storia umana e ha assunto diverse configurazioni filosofiche, economiche, politiche e religiose; quel che di peculiare accade ora, mi sembra, è che le cosiddette “narrazioni forti” si sono rimpicciolite in conflitti di superficie, in un essere pro o contro, mentre alcune mutazioni fondamentali (quelle sì simili a un’alluvione) ci mettono in uno stato di attonita constatazione, per non dire di ipnosi.
Non so se l’esercizio abbia un senso, ma proverei a elencare qualche caso di mutazione violenta percepita invece come naturale e/o ineluttabile.
Il primo che mi viene in mente è il progressivo peggioramento della qualità della vita in occidente per molti, mentre da ogni parte arrivano stimoli a migliorare, a sperare, a non mollare mai; e rassicurazioni che tutto andrà bene, che ce la faremo, che il lusso e il divertimento non mancheranno.
La democrazia è lentamente erosa dalle democrature nostalgiche del passato e dagli eccitanti meccanismi élitari della tecnologia futuribile; le sperequazioni economiche si fanno sempre più insopportabili, compaiono nessi verbali e logici prima inimmaginabili come la post verità trumpiana, e si chiamano “partigiani” i gruppi neonazisti russi anti Putin.
Magari, mentre in un talk-show si sta parlando di questo, arrivano gli spot pubblicitari a ricordarci che in crociera si vive alla grande, che basta un gelato con lo stecco per renderci felici, che la banca XY ci assicurerà una vecchiaia serena; e se anche si mostrano bambini minacciati dalla cecità, ecco che bastano pochi nostri euro al mese per restituirgli la vista.
Il mondo starà anche andando in rovina ma si deve pur vivere, l’eccesso di informazioni è un ottimo anestetico. Il contesto cambia, si sa, è sempre cambiato, le illusioni sono illusioni ma fin che tutti si illudono intorno a noi vuol dire che tanto male non stiamo, è solo tuono che brontola in lontananza.
Rassegnazione
Sette o otto anni fa alcuni sostenevano che da lì a undici anni il mutamento climatico sarebbe stato “irreversibile”; dunque, calcolandolo ora, tra tre o quattro anni non si potrà più tornare indietro. Ma i ragazzi evidentemente non ci credono, confidano che la tendenza si possa ancora invertire, sennò altro che imbrattare monumenti; dieci anni fa il movimento Occupy Wall Street chiedeva alla finanza di cambiare senso di marcia, non è cambiata affatto e il movimento ha ottenuto come unico risultato di dare visibilità a Bernie Sanders.
Da un lato il panorama appare sempre più difficile e intricato, dall’altro gli strumenti a disposizione fanno apparire tutto sempre più facile, basta cliccare da qualche parte e il problema è risolto.
Nessuno è diventato stupido improvvisamente; il contrasto tra pessimismo e ottimismo, la contraddizione tra militanze di piccolo cabotaggio (che si consumano in fretta) e cambiamenti che invece operano su tempi lunghi o lunghissimi creano nella mente degli occidentali medi una sorta di nebbia, di rassegnazione che tanto vale concentrarsi sul piacere e sulla competizione, se comunque nessuno ci capisce niente. È la disaffezione al voto, è l’inverno demografico (non credo sia solo una questione di asili nido o di incentivi alla natalità, si fanno meno bambini anche in Svezia).
Apparenza normale
L’occidente è visto come una pianta che sembra stia per morire sul terrazzo e tu non sai come trattarla, però alla fine si riprenderà per legge di natura. I giovani sperano perché sono giovani; perché i cuccioli di ogni animale han bisogno di esplorare, di muoversi, di giocare.
Loro dei desideri non possono fare a meno, in compenso ne hanno paura: i desideri sono individuali, talvolta feroci, spesso esclusivi e poco presentabili – è in atto una tendenza ad addomesticarli, a farli apparire collettivi e inclusivi, insomma a depotenziarli.
I doveri si nascondono dietro i diritti. I militanti mostrano la luna ma sul suolo lunare ci arriveranno soltanto i miliardari amici di Elon Musk. La Destra ha buon gioco nel mostrare l’inconsistenza delle speranze che si affastellano, la confusione di troppi allarmismi o le ridicolaggini della gauche caviar, ma non sa proporre altro che un ritorno alle tradizioni e alle distinzioni “naturali”.
Così la politica italiana assomiglia a uno scontro di agronomi: tra chi si affida alle vecchie ricette (i prodotti nazionali, i nuovi germogli disciplinati e potati dallo stato) e chi invece punta su inediti incroci e innesti (la decostruzione derridiana sul tronco marxista, l’unità sindacale che si sposa con la disintermediazione); ma entrambi, alla fine, scrutano il cielo auspicandolo benigno.
La società globalizzata va verso forme di partecipazione mai prima sperimentate, sarebbe grottesco rimpiangere la prudenza di Togliatti o gli equilibrismi di Moro; ma questo sonnambulismo quasi vegetale in cui l’occidente oscilla tra indifferenza e rancore, sforzandosi di apparire “normale’” ai suoi figli più irrequieti e sicuro di sé ai più timorosi, nascondendo le proprie paure e armandosi di soppiatto, questa parte del mondo che rimuove con l’apparenza del benessere la perdita di prestigio, beh tutto questo non può portarci bene.
© Riproduzione riservata