- L’episodio 3 della quarta stagione di Succession è un colpo d’ala, un’anticipazione del finale di una serie che ci mancherà moltissimo
- Il colpo di scena era stato in qualche modo preannunciato nella stagione precedente, ma gli sceneggiatori sono stati comunque attentissimi a non far filtrare nulla
- Si è scritto spesso che Succession è shakespeariano (ma dai): in effetti, Logan Roy ricorda un po’ Silvio Berlusconi, che è il nostro Re Lear, ma anche il nostro Macbeth
Ha fatto un certo effetto vedere il terzo, cruciale episodio della quarta stagione di Succession nei giorni della Passione di Silvio. C’è, però, una differenza sostanziale (ATTENZIONE: da qui in poi è tutto uno spoiler; sulla serie, intendo): Berlusconi sopravvivrà anche stavolta, o almeno così pare (forza Silvio); Logan Roy, il patriarca cui dà (dava) il volto il monumentale Brian Cox, finalmente (lo dico per lui) si leva dalle palle e lascia la palla, pardon, ai figli imbecilli.
È l’esito che mai avrebbe sperato, ma pure la sua ultima mossa, probabilmente la più beffarda, anche se di certo involontaria. «Ci vuole un po’ di aggressività, cazzo!» sono le sue ultime parole mentre sale sulla scaletta dell’aereo su cui verrà stroncato da un infarto o chissà cosa. Ancora pensa di essere il leone pronto a sbranare soci, concorrenti, prole stessa. E invece.
Un po’ di aggressività
Dopo i primi due bellissimi episodi della stagione tristemente finale (due episodi forse ancora più belli dell’intera stagione precedente, che però serviva da esercitazione rispetto a quello a cui stiamo assistendo ora), Jesse Armstrong, cioè il creatore della serie che da noi va in onda su Sky e in streaming su Now, sapeva che era arrivato il momento di un colpo d’ala. Un po’ di aggressività, cazzo. Una fine annunciata, quella del titano delle comunicazioni Usa che, per tre stagioni appunto, ha fatto di tutto perché i figli non rilevassero la grande e potente azienda di famiglia; o quantomeno, per limitare i danni che quegli inetti – e viziati, pavidi, ignoranti, pigri, sessuomani o sessuofobi, addirittura wannabe presidenti degli Stati Uniti (ma senza arrivare manco all’1 per cento) – avrebbero potuto arrecare all’azienda stessa.
La morte di Logan non arriva inaspettata. Le avvisaglie c’erano già state nella stagione numero 3: splendida la puntata in cui il miliardario ebreo interpretato da Adrien Brody, che avrebbe voluto investire nella società di Roy, fa letteralmente perdere il patriarca e il più problematico dei suoi eredi (cioè Kendall, il magnifico method actor Jeremy Strong) tra le dune degli Hamptons, col primo che già lì avrebbe potuto restarci secco. Ma anche l’avvio della quarta stagione, con tanto di vero/finto ricongiungimento e, forse, perdono tra padre e figli in un karaoke bar (uno dei tanti colpi di genio), rendeva evidentemente più prossima la fine.
Il segreto
Ma per arrivarci c’è voluto un po’ di tempo, e soprattutto mille insabbiamenti, roba da dossier ultra classified. La scelta di far definitivamente uscire di scena Logan è avvenuta, nella writers’ room di Succession, più di un anno fa, nel gennaio del 2022; negli appunti e negli script la dicitura “Logan Dies”, spiega ora Georgia Pritchett, una delle sceneggiatrici in carica, è stata sostituita con “Larry David” (applausi), così che solo chi già lo sapeva avrebbe potuto afferrarlo al volo, gli altri chissà cosa avranno pensato; persino gli attori, cui è stata data comunicazione del clamoroso twist in una videochiamata su Zoom, hanno dovuto mantenere il segreto pure davanti ai loro cari, manco fossero agenti della Cia («Ho chiuso la call», racconta oggi a Rolling Stone Usa Sarah Snook alias Shiv, che in questa puntata giganteggia forse più di tutti, «e ho detto a mio marito: “Non era niente di importante, solo un’altra call sui protocolli anti-Covid”»: quando gli interpreti sono scritti meglio dei loro personaggi).
L’ultimo viaggio
Dunque, eccoci qua. Si fa un gran parlare del S4 E3 (Stagione 4, Episodio 3) negli Stati Uniti, dove Succession è sì un fenomeno di nicchia (2,5 milioni di spettatori su HBO per l’episodio in questione, comunque un record per la serie), ma comunque capace di generare un vero e proprio caso di costume. Non si contano, nelle ore dopo la messa in onda, tutti i meme, le gif, le ricostruzioni, le liste sui migliori «Fuck you!» di Logan nel corso degli anni; c’è persino un meraviglioso account Instagram, @nocontextsuccession, che, come promette il nome, tira fuori dal loro contesto alcune delle battute più belle di ogni puntata, battute che diventano ancora più belle se prese da sole.
Da noi, invece, Succession è un pleasure (non guilty) d’élite perché è troppo difficile, parlano troppo in fretta, non c’è nemmeno un giovane detenuto in odore di camorra che s’innamora della figlia del boss rivale (ogni riferimento a drammi teen-carcerari oggi benedetti o maledetti dall’hype non è casuale).
Dell’episodio 3 si potrebbe parlare anche solo per i meriti strettamente tecnici. È stato girato praticamente in tempo reale (assegnate fin da adesso tutti i futuri Emmy per la miglior regia e non parliamone più), e sull’ora scarsa di durata totale almeno 30 minuti sono costituiti da un’unica ripresa pressoché senza interruzioni. Scorrono, nel corso di questa puntata ad altissimo tasso simbolico, un matrimonio e un (quasi) funerale, e soprattutto il redde rationem di tutta la famiglia e, ancora di più, dei suoi parassiti, che non sono ovviamente pronti a mollare.
Tutta l’azione si svolge su una barca al largo di Manhattan, location del matrimonio tra Connor (Alan Ruck), il figlio maggiore e forse più incapace, con l’adorabilmente frivola Willa (Justine Lupe), che non scappa sull’altare solo per ragioni di dote, come lei stessa candidamente ammette; lo stesso yacht è il posto in cui gli altri tre rampolli, presenti controvoglia alle nozze, vengono a sapere prima del futuro sposo della dipartita del vecchio. L’altra parte di narrazione avviene sull’aereo privato che dovrebbe portare il patriarca verso la firma di un accordo miliardario con un fondo svedese e che invece sarà luogo dell’ultimo, brevissimo viaggio.
Una tragedia perfetta
Tutti, in questi anni, hanno scritto fino allo sfinimento che Succession è puro Shakespeare (ma dai); in realtà, vedendo appunto la puntata nelle ore in cui si refreshano in continuazione i bollettini dal San Raffaele, pare puro Berlusconi, che poi è il nostro Re Lear (ma anche il nostro Macbeth e il nostro Falstaff: soprattutto il nostro Falstaff), dunque tutto torna.
La telefonata che Logan forse non avrà mai ascoltato – è già in arresto cardiaco quando lo mettono in comunicazione con i figli – e che si passano vicendevolmente Shiv, Kendall e Roman (l’unico che prova a tenere le fila tra il padre e i fratelli, o forse colui che avrebbe bellamente tradito i fratelli; Kieran Culkin, come tutti del resto, dà qui un’altra prova strepitosa) è una scena da tragedia perfetta, ma anche da farsa inconsapevole, di quelle che la nostra politica ha spesso messo in scena.
Che cosa resta ora, al termine di questo viaggio? Ovviamente la fine del titano della comunicazione, da sempre minacciata, e la sua successione, che ora arriva per davvero. Ma più di tutto i comunicati stampa che non devono scontentare gli azionisti ma, in primis, chi negli anni si è ritagliato (o ha arraffato) un ruolo chiave all’interno un’azienda – la Waystar Royco – tenuta insieme da interessi più privati che pubblici, da rimpalli e rinfacci più che da una vera strategia imprenditoriale. All’orizzonte c’è la lotta fratricida, che con tutta probabilità sarà fatale anche per i sopravvissuti: nel Re Lear, non dimentichiamolo, muore sì il monarca, ma pure le avide o incaute figlie.
Finale a sé
Tutto può ancora succedere, di certo l’episodio 3 resta già un finale a sé, per mille motivi. Un finale che uno dei registi storici della serie (Mark Mylod, di recente ha firmato per il cinema lo sciocchino ma godibile The Menu) ha contrappuntato con tutti gli elementi visivi e stilistici che hanno reso grande questo Grande Romanzo Americano: la coralità altmaniana, il falso impromptu alla Cassavetes, gli zoom insistiti da thriller politico anni Settanta. Ma anche con tutti gli ingredienti specifici di Succession: il ritratto di una New York – e di un’America – dove vige sempre meno l’idea e la speranza del Sogno, restano solo i cocci da non far travolgere da un’ennesima crisi economica; le infinite variazioni sulla magnifica partitura musicale di Nicholas Britell, tra le più belle nella serialità di sempre; soprattutto, il protagonismo e insieme la generosità di ogni singolo interprete del cast, anche e soprattutto i comprimari, sempre capaci di prendersi la scena anche solo per un momento per poi restituirla agli altri (si veda la lezione impartita negli anni da Matthew Macfadyen, ovvero il genero Tom, e Nicholas Braun, alias il cugino Greg, da semplici supporting a personaggi e interpreti centrali).
L’episodio 3 della stagione 4 di Succession, dicevo, è già un finale. Un finale che arriva all’inizio della stagione è una cosa che forse non si era mai vista, e anche questo è uno dei primati di una serie che ci mancherà, che ci manca già.
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