Un romanzo, un saggio, un racconto corale che ci restituiscono un pezzo di storia d’Italia quasi fosse intatto. Sembra di poterlo toccare con mano, tanto è chiaro il paesaggio culturale e politico che ci descrive Massimo Zamboni in La Trionferà, il suo ultimo sforzo letterario, appena pubblicato da Einaudi nella collana Supercoralli.

Classe 1957, Massimo è un infaticabile. Più di trenta dischi pubblicati, ed un nuovo album, La mia patria attuale, in uscita il prossimo autunno e preannunciato con un singolo, il Canto degli sciagurati, che già nel titolo dice molto del suo autore e della sua vicinanza intellettuale e politica nei confronti degli ultimi.

Devo essere franco, il romanziere m’era sfuggito. E mi viene spontaneo chiedermi, chissà cosa potrà pensare un partigiano del rock del contesto musicale dell’Italia del 2021.

Ciò che intendo per musica ha a che fare con una sofferenza profonda o una beatitudine incontenibile. O deve essere espressione geografica, cammino dell’uomo, polvere, fatica, cattiveria, adorazione. È così straordinariamente poco interessante parlare di musica oggi, c’è molta confusione su questo tema, per il quale musica è il sottofondo brulicante degli ipermercati o lo strillo televisivo. La voce come esercizio atletico, la cassa in battere 4/4 come nella catena di montaggio, l’obbligo dell’inglese per sfuggire da una lettura impegnativa del quotidiano. Sono un partigiano, appunto, amo gli inni, dolenti e trionfali.

Negli anni Ottanta la parola più diffusa nel discorso pubblico era “riflusso”, quella specie di fenomeno sociale che, nel segno dell’oblio della lotta di classe, del ripiegamento nella sfera privata e del disimpegno, spingeva il paese verso un nuovo periodo di ridanciano e sfrenato consumismo. Qualcosa è andato storto, e mi ritrovo a dover fare i conti con una società in cui non mi riconosco più: il tempo passa, più in fretta che mai, e quel che noi ragazzi di sinistra chiamavamo “riflusso” oggi lo chiamiamo neoliberismo, turbocapitalismo, società della sorveglianza, sovranismo populista.

A volte mi chiedo che senso possa ancora avere darsi tanto da fare per cambiare il mondo, se poi il mondo non soltanto non progredisce, ma regredisce. Perché cambiare il mondo, per come la vedo io, è il vero compito dell’artista. Ma di fronte a noi c’è una catastrofe. In molti ormai pensiamo di meritarcela. Tu, mi sembra di capire, fin dal titolo stesso del romanzo, sei invece ottimista.

Ho pensato a lungo a quel titolo che ha ambizioni di un futuro praticabile. Avevo cominciato a scrivere pensando a un titolo differente: “Siamo stati folli a consegnarci ai traditori”. Immaginavo un pamphlet aspro nel quale denunciare il verticismo e il personalismo che hanno approfittato di un elettorato ancora fertile, debole per perplessità recente, ricco per passione antica. Poi qualcosa in me si è inceppato per un paio di anni, fino a dover accettare che non si deve aggiungere asprezza a quella che già domina le vite. E il soggetto si è ribaltato, rendendo il libro un inno ai traditi, a coloro che non si sono mai risparmiati, che hanno creduto nel mondo, nell’essere cittadini del mondo, quelli che hanno sacrificato vita familiare, lavoro, tempo libero in nome di quell’idea di giustizia che – spavaldamente – è sfoggiata nel nuovo titolo.

Gli stolti diranno che è una idea stolta, assumendo su di sé le ragioni dei propri padroni. Non è problema che mi riguardi, so che ciò che rimane dei tiranni è un trono vuoto, e cumuli di macerie. Ognuno di noi è posto di fronte a scelte, personali e collettive: quale vita si vorrebbe vivere, cosa si vorrebbe lasciare dietro sé. Essere strumento di sfacelo, essere strumento di speranza. Scegliere una morte, anche arricchita da mille orpelli; oppure scegliere la vita, qualunque essa sia.

Non ho la sicurezza – né l’augurio – che l’arte possa cambiare il mondo. Ma ho la presunzione che l’artista debba donarsi al mondo, offrirsi, non necessariamente in senso sacrificale. Nel suo dispendio, grande o minimo che sia, a seconda del talento espresso, il mondo viene continuamente rimasticato, assorbito, infine restituito. Tutto il resto è spettacolo, intrattenimento; tempo perduto.

Non si può impunemente distruggere Dio, Famiglia e Patria. «Esulta il mio animo di sacerdote. Il crocefisso è stato restituito alle scuole, il tricolore viene benedetto dal sacerdote, onoriamo la saggezza dei Governanti».

Nella comunistissima Cavriago degli anni Venti, il fascismo tenta invano di riportare l’ordine morale di un clero tanto reazionario da farlo esultare per la violenza omicida infliggentesi sulla povera gente, lavoratrici e lavoratori. Niente di meno cristiano si possa immaginare. Questa pagina mi ha ricordato il presente in cui viviamo. Esponenti politici del massimo rilievo strumentalizzano, rozzi e volgari, il cattolicesimo, persino in barba a un pontefice così amorevolmente progressista come Francesco.

Si approfittano della vulnerabilità culturale di una parte consistente di paese. Mi sorge spontanea una riflessione, il fascismo eterno, o Ur-Fascismo teorizzato da Umberto Eco, è oggigiorno più vivo che mai. E penso che La Trionferà, del quale letteralmente in lacrime ho appena finito la lettura, rappresenti un atto di resistenza intellettuale allo sfacelo culturale a cui stiamo assistendo.

Vorrei viaggiare casa per casa nell’Emilia in cui vivo, leggere il libro alle orecchie distratte, chiamare ognuno a comprendere ciò che è stato e farne vanto. È stato attuato uno strumento di governo forse unico al mondo, con tutti i limiti che conosciamo. Se l’Italia è un paese di fascismo eterno lo dobbiamo a chi eternamente fascista rimane, a chi ritiene di poter dominare senza mai guardarsi allo specchio, a chi proclama la propria fede e ragione con le parole delle televendite, a chi non è atterrato dalla propria violenza. Ai volti ricchi e sorridenti, squali eleganti, abbronzati e bianchi come cadaveri. Lo dobbiamo anche a chi – dall’altra parte – ascolta le parole di quel dominio, facendole proprie in nome di un progresso e uno sviluppo che sono illusione e incubo. Forse non sarà mai più possibile riformulare una egemonia culturale in base alla quale condurre sguardi differenti verso il mondo. Forse ci dovremo accontentare di ritirarci sempre più in montagna, lasciando coste pianure e città alla voracità di tanti. Ma se ognuno di noi ha un dovere nei propri confronti, è quello di utilizzare pienamente le facoltà di cui è dotato, morali, intellettuali e di rifiuto. Nessuno ci obbliga alla servitù, esistono larghi spazi in cui esercitare autonomia di pensiero e di vita.

Personalmente provo una grande tristezza per la nostra amata e povera patria, e forse è per questo che sento come La Trionferà sia riuscito, come una bella canzone, a colpirmi nel profondo, perché ci ricorda chi eravamo, belli e brutti, ma soprattutto belli, quando non meravigliosi: Cavriago, una cittadina sconosciuta al mondo, sentiva in cuor suo di esserne al centro, nella comunione d’intenti che univa i popoli nella lotta per la giustizia e l’uguaglianza, in un unico e universale consorzio umano. È ciò che più sento mancare, oggi, nella società italiana, lo sguardo verso il mondo, quella cittadinanza universale che ci faceva scendere in piazza contro le guerre e per la pace.

Mi intristisco sempre quando trovo nei titoli delle recensioni che riguardano il libro le parole Don Camillo e Peppone, lambrusco, nebbia, pianura. La semplificazione intellettuale riduce il mondo a entità stereotipate cui tutto ricondurre. Non c’è nessun mondo piccolo da reclamare, nessun comodo microcosmo. Cavriago è stato il mondo. Ammiro la volontà di quei contadini e artigiani che a malapena parlavano italiano e forse mai erano stati in città, di quelle donne lavoratrici senza giornali e televisioni che riconoscevano come loro concittadini e contemporanei Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Vorrei chiedere a uno studente universitario attuale chi erano gli Spartachisti… Siamo stati al tempo dovuto vietcong, greci, cileni, ora fatichiamo persino a essere italiani. Ancora una volta sta alla responsabilità individuale trovare la propria salvezza, condividendola, espandendola fin dove si può. Denunciando le facce senza vergogna che presumono di avere un valore, di essere di importanza al mondo.

Nella Reggio del 1960 erano in ventimila, Scelba ministro degli sbirri. «Esplodono duecento colpi, muoiono in cinque, non si è mai saputo il numero dei feriti visto che era troppo pericoloso andare in ospedale; ma sono tanti, ventidue quelli ufficiali, colpiti da armi da guerra. Centinaia i percossi.

Tre dei caduti erano stati partigiani, neanche i fascisti e i tedeschi erano riusciti ad ammazzarli, hanno dovuto aspettare che arrivasse la democrazia». Qualcosa di dolorosamente analogo accadde a Genova nel luglio di vent’anni or sono, quando la “democrazia” fu sospesa a manganellate e colpi d’arma da fuoco. Anche in quell’occasione, la polizia cercò i feriti negli ospedali, per portarli a Bolzaneto. In quei giorni c’era gente nei bar che esultava per la morte di Carlo Giuliani.

Anche in quello dove lavoravo io. Il proprietario una sera sbottò «ne ammazzassero a decine!». Mi dimisi all’istante.

Quei tre ex partigiani hanno dovuto aspettare l’avvento della democrazia per essere fucilati in piazza. Quello che nemmeno i nazisti erano riusciti a fare -ucciderli come criminali- i moderati di centro hanno attuato con disinvoltura. Ci sono cronache che fanno letteralmente ribollire a distanza di così tanti anni, Reggio Emilia, Genova, tutto l’insieme delle stragi e delle manovre messe in atto per tenere il Pci lontano dal governo del paese. Lo stato che si erge come un mostro poliziesco sopra i cittadini, lì dove la burocrazia o la persuasione ingannevole non riescono più a mantenere il controllo. Nemici di un popolo che davanti a nulla hanno esitato. Sono stati più inesorabilmente forti delle nostre ragioni, che contenevano esitazioni giuste, pensieri, riflessioni.

E mi sembra così intollerabile questo clima di complicità per il quale gli schiavi imitano in tono minore il comportamento dei loro padroni, confidando che l’accessibilità e la finta vicinanza creino per i presupposti per una uguaglianza che mai avverrà. Credo che solo il rifiuto di queste omologazioni, una sana, disinvolta ripugnanza per l’attitudine dominante, possano aiutarci a compiere un cammino sensato.

«Sacrificio, il consumo delle vite. Persecuzione, la modalità con cui venivano estinte. Resurrezione, la promessa da mantenere».

C’è dell’ambizione poetica nella tua narrazione, la si evince in pagine come quella dedicata ad Abbo, il “Principe”, affetto da “ipocondria ideologica”, che “discute” con il busto inesorabilmente muto di Lenin, che comunque, come un Esenin, gli risponderà che «il contadino è più vicino alle stelle, che allo stato».

Abbo, figura centrale del romanzo, se n’era andato da tempo, consumato dalla malattia e dai sedativi. Per i suoi dubbi, autentici e cruciali, per la sua lenta e tremenda sconfitta, ho letto espressioni di vera pietas cristiana. Non è che una suggestione, ma intravvedo una cauta affezione per il divino nel romanzo, una vicinanza.

Questo è sinonimo dell’offrirsi tragico di cui parlavo prima. Il sindaco socialista Arduini costretto all’abiura sul letto di morte; il Principe, militante entusiasta costretto a scendere tutti i gradini della propria emarginazione; il partigiano Zanti che con lucida generosità si butta negli eventi, conoscendo l’inevitabilità della propria fucilazione. Non è un caso che il lessico della liberazione abbia assunto le parole di chi ha fatto della compassione e della pietas, dell’offrirsi in cambio della redenzione, il centro del proprio credo. Ognuno di loro ha assunto su di sé i peccati di tutti. Sono figure che commuovono, che nel corso della ricerca e della scrittura mi sono diventate familiari, che mi sono parse da subito umanissime e vive. Eroi di un canto epico che è necessario cantare e ricantare, pur essendo consapevole della limitatezza di un orizzonte che si limita all’esercizio della politica. «Il contadino è più vicino alle stelle che allo stato», come ricordi tu. Siamo tutti contadini, in questo. Mi preme anche sottolineare che non ho inventato nulla, ogni azione narrata è stata compiuta, ogni parola è stata pronunciata. Non amo l’invenzione letteraria, preferisco la restituzione. Il compito che ho assegnato alla mia scrittura è quello di dare ordine finale a un disordine inestricabile.

Nel 1987 avevo diciannove anni. Sono figlio di un’ex suora paolina e di un barbuto operaio fonditore, sacrestano della parrocchia nel suo tempo libero. Miracoli dell’amore. Il prete del paesino, Santa Cristina di Quinto di Treviso, durante l’omelia, invitò noi giovani a votare per un partito che fosse democratico e…cristiano. Io, che andavo ancora a messa per compiacere mamma e papà, mi alzai e me ne uscii di chiesa, nello stupore generale e con grande rammarico dei miei.

Mi recai al seggio e votai Pci. Fu la mia personale e drammatica rottura ideologica con i miei genitori. Tu a diciassette anni, un sabato pomeriggio della primavera del 1975, ti iscrivevi alla Fgci. Un moto di ribellione, un momento cruciale nella crescita morale e politica di un adolescente che decide di ribellarsi al retaggio culturale e ideologico della propria famiglia. Quel tesseramento per te rappresentò un «atto statuario, l’apice di una lotta di logoramento condotta per puro istinto contro i residui di un’educazione in crollo, che ora benedico per avermi imposto di lottare». Confesso che appena lette queste pagine del libro, mi ci sono specchiato dentro.

Credo sia il vissuto di tanti. La distanza culturale dall'educazione familiare, la necessità di una lotta di liberazione individuale che in età acerba esplode e tutto trascina con sé. Che sofferenza nell’infliggere dolore a chi ti ha messo in vita, e insieme che piacere nell’attuarlo. Sono dinamiche eterne, non necessariamente di segno politico, e che sorprendentemente spesso diventano i pilastri di riconferma di un ordine che deve essere demolito per proseguire. Ora riesco a vedere la mia famiglia come inserita in un ordine temporale lunghissimo, vedo chi mi ha preceduto fare i conti con la storia che lo ha attraversato, lo vedo prendere decisioni orribili o giuste a seconda dei casi. È stato giusto abbandonare le ragioni dei padri, così come spesso è fondamentale ricomprenderle da una diversa altezza.

I compagni di partito, giovani e diversamente giovani, in tanti leggeranno La Trionferà, e lo ameranno, ne sono certo. Qual è il tuo rapporto con la “forma partito” tanto odiata dal qualunquismo populista, ma anche detestata dall’antagonismo di sinistra, a mio avviso superstite baluardo di un fare politica autenticamente avverso al capitalismo, e quale quello con lo stesso antagonismo, o di ciò che di esso resta nel paese?

Le parole, le concezioni, sono esseri viventi e come tali nascono e si consumano. Con fatica pronuncio la parola Comunista”, con maggior fatica la ascolto. È un affidarsi rassicurante a un suono che nasconde confusioni, malintesi. Quando guardo i volti degli avversari di quel suono tutto è immediatamente chiaro. Ma non può bastare questo risolvere in negativo. A un partito, a suo tempo, avevo affidato le mie istanze di uscita dall’oppressione, pensando che la liberazione sarebbe stata di tutti o di nessuno. Ho conosciuto la “forma partito”, il centralismo democratico, la militanza disciplinata che spesso si riduceva a nulla più che vendere un giornale o garofani rossi alle manifestazioni.

Tutte pratiche che preferisco a questo attuale vociare di tutti contro tutti, quel desiderio di emergere che rende i partiti una giungla di erbe in competizione per una razione di aria personale. Pur ammirando infinitamente Berlinguer, votavo PCI, non il suo leader, preferendo la storia lunga alla temporalità della persona. Mai sosterrei un partito che avesse un nome e un cognome nel simbolo. Per contro, detesto la parola “antagonismo”, che troppo spesso beatifica chi la usa per sé, tenendosi esente dalla colpa universale. Da troppe bocche l’ho sentita pronunciare, e in molte di loro ho sentito l’alito di ciò che sarebbero diventate. Questo fa di me, di tanti di noi, degli isolati senza rimedio. Condizione niente affatto disprezzabile, ma che mi obbliga, a titolo di esempio, a cercare soccorso e conforto in libri come questo.

La copertina del romanzo raffigura una giovane donna che sventola una grande bandiera rossa. Ho sempre pensato, un po’ per gioco, un po’ per innato romanticismo, un po’ per convinzione, che la democrazia sia una donna, istruita e premurosa, il fascismo un maschio ignorante e rancoroso.

Ho conosciuto donne feroci come lupi, uomini gentili e colti. Ma temo sia così come scrivi, in prevalenza. Ogni manovra arrogante, ogni presunzione di superiorità umilia il mio essere di parte maschile. Ognuno alla fine agisce secondo la propria natura.

È nella natura delle democrazie occidentali non risolvere definitivamente la dualità che tu esponi; e quando ti senti legittimo e forte nelle tue ragioni è allora che può capitare di sperimentare la ferocia di chi vuole tenere le redini saldamente in mano contro tutto e tutti; e quando devi affrontare la coercizione aperta potresti scoprire le infinite sfumature offerte da un paese di antica e profondissima civiltà.

 

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