- Tante volte l’ucronia è un esercizio di pessimismo e Il richiamo del corno è forse tra gli esercizi letterari uno dei più pessimisti e seducenti
- Esplora l’ipotesi storica che i nazisti abbiano vinto la guerra e ora dominino il mondo persino peggio di come ci si sarebbe aspettato che lo facessero
- L’autore, il diplomatico britannico John William Wall che si firmò con lo pseudonimo di Sarban, non dà al lettore la soluzione per decifrare l’enigma al centro del suo romanzo
Tante volte l’ucronia è un esercizio di pessimismo e Il richiamo del corno è forse tra gli esercizi letterari uno dei più pessimisti e seducenti. Cordialmente parlando, è un romanzo terribile, la cui ipotesi storica, che sconsiglierei di verificare a chiunque – vale a dire che i nazisti abbiano vinto la guerra e ora dominino il mondo persino peggio di come ci si sarebbe aspettato che lo facessero –esercita negli scrittori un’atterrita tentazione persino da prima che la Seconda guerra mondiale si concludesse.
John William Wall era un diplomatico britannico, a 23 anni già viceconsole a Beirut, che servì Sua Maestà in medio oriente per gran parte della sua vita. Quando scrisse Il richiamo del corno era il 1952 e lui, che si firmò con lo pseudonimo di Sarban, che in parsi significherebbe “carovaniere”, era di stanza al Cairo. Adelphi lo aveva pubblicato nel 2015 e ora lo sta riportando in libreria in edizione tascabile, sempre nella traduzione di Roberto Colajanni.
Un’orrenda deviazione
Come Confessione africana di Roger Martin du Gard o Amok di Stefan Zweig, anche questo è un romanzo notturno d’ascolto, e per voce unica: ci sono cioè due uomini che trascorrono insieme una notte, la più insolita che potessero immaginare, nella quale uno dei due racconterà all’altro una vicenda che ha stravolto per sempre la sua vita. In questo caso la deviazione che ha preso l’intera esistenza di colui che parla a distesa per l’intera notte è tra le più orrende che si possano immaginare.
Davvero? Sul serio è così orribile la vicenda personale che Alan Querdilion sta confidando a un suo vecchio amico? Considerando che è stato prigioniero di un mondo nel quale i nazisti hanno vinto e in cui chiunque non appartenga agli alti ranghi della loro società è costretto a ripararsi nei boschi e ad attendere, con addosso costumi che riecheggiano certe specie animali, che quelli vengano a cacciarli come farebbero con i fagiani o le lepri, direi proprio di sì, è davvero una storia molto spaventosa.
Quelli hanno le mute di cani per stanare la preda, i cavalli con cui raggiungerla e hanno il corno che barrisce orrendamente. Ed è anche inquietante il titolo originale del romanzo – The Sound of His Horn – che ci porta a chiederci a chi appartenga quel corno di cui dobbiamo temere con raccapriccio la chiamata.
La fuga
La nave su cui viaggiava Alan Querdilion venne colpita e affondata al largo di Creta nel 1941. Non era la prima volta che rischiasse la vita: tralasciando tutti i bombardamenti a cui è scampato, in passato era già stato silurato due volte in appena tre mesi nelle acque del Nord. Stavolta però viene catturato e trascorre due anni in un campo di prigionia della Germania orientale.
«Questo piccolissimo mondo mi divenne molto familiare», racconta, «filo spinato, naturalmente, baracche fatiscenti, troppo fredde d’inverno e troppo calde d’estate, i sudici lavatoi, le latrine puzzolenti, la terra chiara e sabbiosa, la nera foresta di pini in lontananza, gli sgherri sulle torrette di guardia».
Nessuno è ancora mai fuggito da quel campo, ma lui ci riesce. Insieme a un altro prigioniero ha scavato un tunnel e ha un piano per allontanarsi il più possibile da lì. Si trova di notte in una foresta di pini, e poi su un sentiero. Si accorge che quel sentiero lo ha portato in cima a un crinale. Su quel dolce pendio, in cui un’erba urticante gli arriva fino al ginocchio, Alan Querdilion riconosce i faggi, le querce, i frassini e i fiori di biancospino: possibile che la luna illumini a tal punto un paesaggio notturno? Lui guarda quella radura scintillante e gli sembra di essere «in un fresco e gioioso mattino d’estate».
Poi si accorge di una luce più tenue, increspata, che asseconda il profilo del crinale. «So che è incompatibile con le leggi della fisica che un chiarore così debole potesse essere visibile nella luce più forte della luna, ma ti giuro che io lo percepivo così. Ero forse già stato bandito, dunque, non dalla legge degli uomini ma da quella della Natura?».
Alan Querdilion cammina verso quel bagliore e quando lo oltrepassa avverte una scossa, un incendio in tutto il suo corpo e prima di svenire ha l’impressione di turbinare in un vortice verso il cielo.
Enigma indecifrabile
Si trattò di un’allucinazione? Al risveglio scopre di essere «nell’anno centoduesimo del primo millennio germanico, come stabilito dal nostro primo Führer e immortale Spirito del Germanesimo, Adolf Hitler». Possibile che un’illusione ottica duri oltre un secolo?
Nell’ombra del delirio Alan Querdilion non consegna al suo interlocutore una chiave per decifrare l’enigma. E del resto il fascino agghiacciante di simili storie non si deve al fatto che quel che di inventato stanno raccontando avrebbe potuto realizzarsi, ma che a nostra insaputa quello si sia veramente concretizzato.
Della testimonianza notturna dell’ufficiale della Marina inglese, Guy de Maupassant direbbe che «ciò che più spaventa è l’orribile concitazione della mente». Eppure ogni pagina parla come un oracolo e ha la lucentezza della sentenza che non concede alternative.
Cos’ha trafitto i suoi occhi? Un worm-hole, letteralmente un “buco di verme”, un tunnel spaziotemporale? È dopo aver superato un varco che Alan Querdilion, una volta ripresa conoscenza, si è trovato in una stanza che se non fosse stato per le due infermiere in uniforme, avrebbe considerato di una casa privata più che di un ospedale? A lui non viene detto altro se non di trovarsi ad Hackelnberg. Nel corso della prima notte sente un suono provenire dal bosco, «talvolta con incalzante ferocia, talvolta con una lunga e trattenuta nota di sconfitta» un corno suona e lui cade in uno stato di angosciosa apprensione, in un «debilitante senso di pericolo che capita a volte di provare prima di capire da quale parte e da quale arma si è minacciati».
Un libro sadico
Nel breve saggio del 1967 La letteratura come menzogna Giorgio Manganelli scrive che non c’è «lascivia che non le si addica, non sentimento ignobile, odio, rancore, sadismo che non la rallegri, non tragedia che gelidamente non la ecciti, e solleciti la cauta, maliziosa intelligenza che la governa». E scrive che «da secoli viene accusata di frode, di corruzione, di empietà. O è inutile o è velenosa. Dissacrante, perversa, affascinante e sgomenta». I romanzi mansueti, quelli dalla coscienza immacolata, i romanzi ossequiosi verso la buona condotta e la costumatezza, non vengono dallo stesso pianeta da cui Sarban ha scritto il suo romanzo più celebre. Un romanzo sadico, empio e velenoso, un incantevole romanzo orrorifico.
I volti degli uomini che scorgerà sono nascosti da maschere che riproducono in modo molto realistico il muso dei babbuini gialli dell’Abissinia. I loro corpi sono rivestiti da mantelli di setosi. Le donne che incontrerà hanno gambe lunghe, il viso celato da una maschera a becco d’uccello dai colori brillanti, che dietro lascia scoperta una nera chioma ondeggiante.
Vedrà 40 statue d’argento, tutte uguali, ognuna delle quali regge un’asta lucente che termina in una torcia su cui brucia una fiamma costante, ma quando le guarda con maggiore attenzione, si accorge che le figure respirano: «Erano fanciulle il cui corpo era interamente ricoperto di una vernice d’argento o inguainato in una pellicola di un materiale così liscio e aderente che ognuna di loro, pur essendo viva, simulava alla perfezione una luccicante statua nuda».
Alan Querdilion si ritrova immerso in un insieme di assurde circostanze di cui è impossibile fornire una spiegazione soddisfacente. Eppure ammette lui stesso nel corso della confessione notturna, «sentivo dentro di me un’infinita riserva di pazienza». Ed è la stessa scorta di pazienza che il lettore non manca mai di avere nei confronti del suo racconto, lì dove mostrarsi pazienti con chi ti ha promesso di metterti a parte dell’orrore più stupefacente della sua vita scaturisce dal sontuoso potere seduttivo della letteratura. È una delle peggiori visioni proposte dalla letteratura ucronica, dacché nel 1876 Charles Renouvier pubblicò Uchronie e che da allora ha ospitato le supposizioni più atroci, le congetture più tremende, le eventualità più crudeli dell’umanità.
E quello che ho raccontato fin qui è solo un modesto stuzzichino rispetto a quello che verrà servito in tavola una volta che il corno avrà suonato.
Il richiamo del corno (pp. 191, euro 12) di Sarban è stato di recente ripubblicato da Adelphi nella traduzione di Roberto Colajanni
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