Etiopia, 1974. Una squadra di paleoantropologi rinviene un braccio, una nuca, un bacino, alcune costole. Oggi quello scheletro non è più il nostro antenato più antico. Ma l’eredità della missione di allora non è finita
Hadar, Etiopia, siamo a 160 km a nord-est di Addis Abeba. Una squadra di paleoantropologi da qualche mese sta raccogliendo i fossili riaffiorati da un antico lago prosciugato. Non piove spesso nel deserto di Afar, ma quando arrivano le piogge sono torrenziali, il suolo non riesce ad assorbirle, e correndo via scavano canaloni nella terra e nella roccia che rivelano i sedimenti geologici come strati di una torta.
Donald Johanson ha sempre subito il fascino del passato remoto: più di tutti di quello dell’umanità. Quando nel 1859 Charles Darwin pubblicò L’origine delle specie era consapevole delle implicazioni dirompenti che la sua teoria dell’evoluzione avrebbe avuto per la concezione umana, e si era limitato a scrivere: «Luce verrà fatta sull’origine dell’uomo e la sua storia».
Poco più che trentenne, Johanson era partito dal Cleveland Museum of Natural History, dove aveva da poco completato il dottorato, e si era unito alla spedizione etiope, guidata dal francese Maurice Taieb. Per individuare i siti più adatti a scavare, aveva portato con sé Tom Gray, esperto di piante e animali fossili della regione.
Quella mattina, nonostante la montagna di lavoro arretrato, tra catalogazione dei reperti e scrittura, sentì che era un giorno fortunato e annotò sul diario: «24 novembre 1974. Alla località 162 con Gray, mattino. Buone sensazioni».
A 7 km dall’accampamento, Donald e Tom parcheggiarono il fuori strada in cima a uno dei canali, scesero lungo il pendio e iniziarono a fare quello che un paleoantropologo sogna di fare fin da quando è bambino: cercare fossili. Verso mezzogiorno la temperatura aveva raggiunto i 43°C. Avevano trovato qualche dente di Hipparion, un antenato del cavallo, porzioni di cranio di un suino estinto, un pezzo di mandibola di una scimmia e poco altro.
Tornando verso l’auto Donald decise di ispezionare il fondo di un altro canale, che era già stato battuto da due collaboratori nei giorni precedenti, senza restituire nulla di interessante. Il suo occhio cadde però su un osso diverso dagli altri.
«Quello è il braccio di un ominide». Impossibile, risponde Tom Gray, troppo piccolo, dev’essere di una qualche scimmia. «Ominide», continua Donald scuotendo la testa. «Cosa te lo fa pensare?», insiste Gray. «Quell’altro pezzo vicino alla tua mano». Era la nuca di un cranio, di ominide anch’esso.
Poco più in là qualche vertebra, parte di un bacino, costole. La mente di Donald correva già: «E se stessero tutte insieme? Se appartenessero tutte a un singolo individuo?» Stanchi e sudati, i due saltarono di gioia e si abbracciarono, nel silenzio assordante del deserto di Afar. «Dobbiamo smetterla. Potremmo pestare qualcosa».
L’idea del nome
Salirono sull’auto e in poche ore tutto l’accampamento non parlava d’altro che di quel ritrovamento. Cosa fosse non lo sapevano con certezza, ma dalle ossa del bacino era chiaro, a un occhio esperto, che si trattasse di una femmina, vissuta più di 3 milioni di anni fa. Quella notte, sotto il cielo equatoriale, si brindò fino a tardi. Nel registratore dell’accampamento girava una musicassetta dei Beatles: Lucy in the Sky with Diamonds. Qualcuno iniziò a chiamare Lucy il nuovo fossile, e da allora tutto il mondo conosce l’icona della paleoantropologia con quel nome.
Ci vollero tre settimane per raccogliere tutte le parti e i frammenti ossei, che messi insieme formarono qualcosa che non si era mai visto prima: il 40 per cento dello scheletro di un singolo individuo, adulto, vissuto 3,2 milioni di anni fa, con il tronco e il cranio simili a quelli di una scimmia antropomorfa, ma pienamente bipede. Era alta circa un metro e dieci e pesava poco meno di 30 kg. Camminava in posizione eretta, ma la corporatura robusta suggeriva che non era altrettanto agile nella corsa. Quell’adattamento sarebbe arrivato solo più avanti nel tempo.
Dopo quattro anni di analisi, Johanson e il collega Tim White stabilirono che si trattava di una nuova specie, mai scoperta prima. Le assegnarono il nome di Australopithecus afarensis.
Il suo ritrovamento, descritto da Johanson e dal saggista Maitland Edey in Lucy – Le origini dell’umanità (bestseller e classico della divulgazione scientifica), ha cambiato quanto pensavamo di sapere sull’evoluzione umana.
Dopo Lucy, la posizione eretta non era più una prerogativa delle specie del genere Homo. Divenne evidente che la comparsa del bipedismo aveva radici più profonde, ma quali siano state le cause della sua evoluzione ancora oggi è oggetto di discussione. Probabilmente un cambiamento climatico lento e graduale, non repentino come quello oggi causato dalle emissioni delle società industrializzate, ha trasformato porzioni di foresta in savana, schiudendo nuove opportunità ecologiche ed evolutive: i nostri antenati sono scesi dagli alberi perché gli alberi sono venuti a mancare.
Le celebrazioni
Esplorare un nuovo ambiente con meno ripari comporta dei rischi che vanno controbilanciati, ad esempio con un allargamento del gruppo sociale. L’anno successivo alla scoperta di Lucy, Donald Johanson a Hadar rinvenne anche centinaia di parti ossee appartenenti a 17 o 18 individui, di cui 5 bambini, di Australopithecus afarensis.
Erano tutti sepolti nello stesso luogo, rimasti probabilmente vittime di un disastro naturale, forse un’improvvisa alluvione. Il gruppo è stato chiamato First Family (la prima famiglia) e rappresenta un’evidenza preziosa di come l’evoluzione della socialità umana risalga anch’essa molto indietro nel tempo.
L’Institute of Human Origins dell’Arizona State University, fondato dallo stesso Johanson nel 1981, ha celebrato i 50 anni della scoperta di Lucy con un simposio cui hanno partecipato alcune tra le personalità più influenti della paleoantropologia internazionale. Quando fu riportata alla luce, Lucy fu presentata come la madre di noi tutti, l’antenato che ha generato la discendenza umana. Oggi le cose si sono fatte più complicate.
Gli anni Settanta del secolo scorso sono ricordati come il decennio d’oro della paleoantropologia, perché da pochi siti in Africa sono stati estratti una serie di fossili che hanno scardinato l’idea che l’evoluzione umana sia stata una singola linea evolutiva migliorata nel tempo. È stata invece una storia di sperimentazioni di forme umane anche molto diverse tra loro.
Oggi i siti paleoantropologici e archeologici in Africa, dove è originata la nostra evoluzione biologica prima e culturale poi, sono più di 200: un’altra misura dell’eredità di Lucy. I tesori che hanno dischiuso ci hanno rivelato che tra 6 e 2 milioni di anni fa oltre ad afarensis hanno vissuto almeno altre 6 specie di Australopithecus, tra cui anamensis (diretto antenato della specie di Lucy), ma anche altri tre generi: Ardipithecus, Paranthropus e Kenyanthropus, ciascuno composto da diverse specie.
Sono addirittura più antichi di 6 milioni di anni i reperti di Orrorin turgenensis, ritrovato in Kenya, e Sahelantrhopus tchadensis, in Ciad. Anche il nome di tutto questo raggruppamento tassonomico è cambiato: non li chiamiamo più ominidi, ma ominini (l’accento è sulla seconda i).
Quanti antenati
Oggi Lucy non è più il fossile umano più antico, ma continua a essere il singolo esemplare meglio preservato, fondamentale per comparare i nuovi ritrovamenti e individuare la loro collocazione in un albero evolutivo, quello umano, sempre più ricco e biodiverso.
Il genere Homo è invece comparso circa 2,8 milioni di anni fa. Anch’esso oggi presenta una diversità di forme che 50 anni fa in pochi avrebbero ritenuto possibile: H. habilis, H. erectus, ma anche H. heidelbergensis, H. rudolphensis, H. antecessor, i nostri cugini Neanderthal, l’uomo di Denisova, e ancora i piccoli H. floresiensis, H. luzonensis e H. naledi. Infine Homo sapiens, noi, comparsi tra i 300.000 e i 200.000 anni fa in Africa e unica specie ominina a oggi sopravvissuta.
Se quella di Lucy sia stata l’antenata della nostra non lo sappiamo: resta una buona candidata, ma non l’unica. La ricerca paleoantropologica può essere estremamente gratificante, ma altrettanto frustrante. Un nuovo fossile può farci capire di più su chi siamo e da dove veniamo, ma può anche mettere in crisi quello che sapevamo o credevamo di sapere. È questo, dopo tutto, il bello della scienza.
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