Cosa faremmo se, esposti al solo giudizio della coscienza, potessimo far pagare un altro per le nostre colpe? È intorno a questo classico dilemma della filosofia morale che si gioca tutto l’intreccio di Giurato numero 2
Un crimine ben riuscito è quello di cui nessuno conosce l’autore – meglio ancora se neppure chi lo compie sa di essere il colpevole. Il crimine perfetto, invece, è quello in cui qualcuno paga al posto del responsabile e il conto con la giustizia si ritiene comunque saldato.
L’ultimo film di Clint Eastwood, Giurato numero 2, spiega senza sovrappiù di retorica che la nostra società è un crimine perfetto costruito su una batteria di crimini ben riusciti: una convergenza di interessi particolaristici, ottenuta a sacrificio di esistenze dispensabili, per garantire sia il trionfo pubblico della giustizia sia la serenità dei molti che, pur commettendo crimini, possono permettersi di farne pagare le conseguenze ad altri.
La trama
La storia si snoda attorno a un canovaccio tanto noto da sapere di stantio. Nella città di Savannah, in Georgia, il quasi-papà Justin Kemp è chiamato a prestare servizio come giurato in un caso di presunto femminicidio. La notte del 25 ottobre 2022, un uomo e una donna si erano azzuffati all’interno di un locale pubblico, sotto gli occhi pregiudizievoli di molti. La donna lasciava il locale sotto la pioggia battente, l’uomo le correva dietro con fare intimidatorio per poi seguirla in auto mentre lei s’incamminava per una strada buia e angusta, con la visibilità ridotta dalle intemperie.
Faith Killebrew, la pubblica accusa (carica che nel sistema di giustizia statunitense è sottoposta a scrutinio popolare), ha bisogno di risolvere rapidamente il caso come fiore all’occhiello per la campagna elettorale in chiusura. E la congiuntura criminosa è di quelle che sembrano risolversi da sé: un uomo violento, incline al vizio, dal passato carico di reati, uccide brutalmente la compagna.
Ma proprio in questa scena che sa di tristemente noto, Eastwood introduce quel tocco di artificialità che fa dell’arte quel che è: scomoda perturbazione della visione ordinaria delle cose. La notte del 25 ottobre 2022, Kemp, membro della giuria n. 2, era passato proprio per la strada in cui era avvenuto il crimine e aveva dovuto fermare l’auto sotto la pioggia perché convinto di aver investito un animale. Nel giurato inizia allora a infiltrarsi il sospetto che l’imputato non sia il colpevole.
Di qui, Eastwood imbastisce una trama tutta incentrata su una domanda classica della filosofia morale: che cosa faremmo se, senza alcun testimone ed esposti al solo giudizio della nostra coscienza, potessimo far sì che un altro paghi per le nostre colpe?
Non un giallo
Se non c’è nulla in tutto questo che possa far gridare al capolavoro, il talento di Eastwood sta nel dissestare il canone attraverso la rottura dei più tipici stilemi narrativi. Il regista dispiega il repertorio classico del courtroom movie e del whodunit per sgomberare il campo da un possibile equivoco: il suo film non s’innesta in quel repertorio, né s’incentra su alcuno degli aspetti comunemente esaltati nelle contrapposizioni tribunalizie tinte di giallo, tanto diffuse nella cultura cinematografica e politica degli Stati Uniti.
Di più, i dettagli tipici di quel repertorio vengono gestiti con ostentata trascuratezza: l’oratoria di accusa e difesa è scabra e poco avvincente, l’esame delle evidenze è più che frivolo, l’utilizzo viziato delle testimonianze è patente, la costruzione della figura dell’imputato è manifestamente caricaturale, i credo etici e politici dei giurati brillano per elementarità, le contrapposizioni di classe e ideologia che segnano i dibattiti della giuria sono rudimentali. Insomma, a quest’ampio catalogo di marcatori del giallo d’aula Eastwood si dedica con gesti rapidi e studiatamente superficiali.
Ambiguità umane
Sono altri i caratteri del film che fanno della filmografia di Eastwood uno dei rifugi sicuri nella progressiva caduta del nostro basso impero. Giurato numero 2 rifiuta le semplici dicotomie coscienzioso-negligente, integro-improbo, disinteressato-calcolatore: Justin Kemp è tutto questo, coscienzioso e negligente, integro e improbo, disinteressato e calcolatore.
Kemp è un essere umano che, come ogni essere umano, vive di ambiguità tanto sincere quanto ineliminabili. La sua onestà nei confronti del mondo è piena, e tale convintamente la crede, lui che con sforzo incorrotto s’è liberato dalla presenza invadente dell’alcolismo e va ora costruendosi una famiglia perfetta, assolta da ogni peccato. Eppure, questa sua integrità perde un poco di consistenza quando capisce che la piena onestà richiederebbe il sacrificio suo e della sua famiglia.
Beninteso: la sua non è una resa senza condizioni alle esigenze dell’egoismo strategico. All’opposto, Kemp tenta di trovare una composizione bonaria col suo senso morale innestando negli altri membri della giuria dubbi su un caso che sembra costruito su un copione troppo ovvio per risultare vero.
Sciorina dunque le sue perplessità sulla costruzione del caso: le indagini superficiali, i pregiudizi diffusi sul maschio bianco violento, un passato che è passato eppure fa ancora dell’imputato un criminale e molti altri. Insomma, con una fatica tanto sentita da provocare il vomito, il giurato Kemp assolve sé stesso attraverso una logorante negoziazione con una coscienza morale incerta se tacitarsi quando ne va del proprio interesse.
Lo stesso lavorio psicologico investe il pubblico ministero Faith Killebrew, chiamata a un bilanciamento sfibrante tra residui di moralità e imperativo della rielezione: sa che le indagini sono state superficiali e che il processo è indiziario, sa persino che l’unica prova è stata “coartata” dalla polizia, ma non si spinge fino a sbastire un caso tanto adatto a lustrare la sua immagine pubblica.
In questo gioco di specchi tra due figure capaci di contemperare integrità morale e interesse privato, emerge il nodo che Eastwood ha più a cuore: la silente complicità tra i due si costruisce su un accordo indicibile, in base al quale la giustizia trionfa, sì, ma a danno di altri.
E non importa chi ne fa le spese, specie se questi è una figura icasticamente costruita per pagare le colpe proprie e quelle altrui – essenziale è che qualcuno paghi, non importa chi, né quanto questi sia predestinato a pagare per altri.
Insomma, Kemp e Killebrew sembrano quasi dirsi che sarebbe irresponsabile, da parte loro, smorzare la gioia collettiva e incorrotta sprigionata dalla risoluzione del caso secondo quanto il copione comandava.
Il giurato e la pm sono persino onesti nel convincersi dell’assoluta necessità sociale della loro tacita ma comune collaborazione al servizio di una giustizia che ha le sue logiche, spesso insensibili al concreto svolgersi degli eventi. La giustizia non è il luogo in cui si accerta il vero, ma quello in cui si celebra il placido convergere del cenacolo dei giusti su chi ha da pagare il conto, che questi sia stato o no tra i commensali.
Nessuna lezione
Il pregio del film è che questo cliché non viene piegato a lezione morale. Giurato numero 2 non intona il grido dolente di chi censura la giustizia ingiusta – all’opposto, sembra volerci suggerire il carattere endemico di queste forme di sacrificio per conto terzi.
Non illustra le meditazioni solenni di caratteri limpidi, protagonisti di scelte titaniche, ma inscena l’andirivieni di coscienze catturate nell’insuperabile dilemma tra l’interesse personale e quello altrui in assenza di testimoni. In questo affresco, la divergenza tra le esigenze della giustizia pubblica e quelle della verità non è rappresentata come l’acme di una società radicalmente disonesta.
Piuttosto, è il comodo scivolo etico che consente ai giusti di continuare a pensarsi giusti perché possano vivere in serenità le loro vite specchiate. Insomma, un legittimo accomodamento tra il pubblico interesse e le necessità individuali, di cui beneficiamo un po’ tutti.
E in giorni come i nostri, in cui ogni dibattito viene immolato sull’altare del manicheismo, in cui incorrotti censori denunciano la sentina di aberrazione che alligna nell’ideologia opposta, la chiamata di Eastwood alla correità diffusa ha un che di salvifico, persino di rassicurante.
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