- Volendo tentare una definizione più verosimile, la cancel culture si potrebbe descrivere come una tendenza (molto varia e poco organizzata) a rivalutare il passato con un’applicazione rigida di lenti etiche della contemporaneità occidentale.
- Ma non se ne parla quasi mai in questi termini. Di solito, anzi, l’espressione cancel culture fa da vestibolo alla grande sala da ballo della propaganda.
- In realtà la cancel culture, quella vera, è l’inevitabile sottoprodotto di una società che comunica su piattaforme digitali costruite appositamente per stimolare i comportamenti aggressivi e dare briglia sciolta all’istinto del gregge, alle logiche ricattatorie dell’influencer marketing e alla divisione rituale della società in compartimenti stagni.
Cancel culture? Macché: cultural lag. I nemici giurati degli anglicismi non ce ne vogliano, ma buona parte del fastidioso rumore di fondo che funesta il discorso pubblico di quest’epoca è racchiudibile in queste due espressioni.
La seconda si deve al sociologo statunitense William Fielding Ogburn, autore di Social Change: With Respect to Culture and Original Nature, il testo in cui nel 1922 la utilizzò per descrivere un mondo rivoluzionato con grande velocità (oh William, se sapessi!), definendo con essa quelle idee e quei concetti ormai datati, che arrancavano dietro all’avanzare impetuoso di tecnologia e società.
Della prima espressione invece ognuno ha la sua intima e inflessibile opinione, che di norma non manca di notificare a tutti gli altri: la cosiddetta cancel culture sta distruggendo l’occidente? Vuole prendere di mira e censurare i testi classici, abbandonarsi all’ebbrezza dell’abbattimento indiscriminato di statue? È addirittura «come il nazismo», per citare il parere influente di Enrico Mentana?
Volendo tentare una definizione più verosimile, la cancel culture si potrebbe descrivere come una tendenza (molto varia e poco organizzata) a rivalutare il passato con un’applicazione rigida di lenti etiche della contemporaneità occidentale, confondendo pubblico e privato e opponendo correttivi affrettati e talvolta ciechi alle discriminazioni patite dalle minoranze del nostro mondo.
Ma non se ne parla quasi mai in questi termini. Di solito, anzi, l’espressione cancel culture fa da vestibolo alla grande sala da ballo della propaganda: una ricerca su Google è sufficiente per vederla inquadrata come causa prima di estremismo politico, canto funebre della cultura e tramonto della società.
Concetto sbagliato
Ed ecco che il buon vecchio Ogburn, cent’anni dopo la sua opera, si affaccia sul mondo digitale con una convincente soluzione all’enigma: la cancel culture è un concetto sbagliato non solo e non tanto perché appropriato dalle destre, ma in quanto rimasto tragicamente indietro rispetto a ciò che si prefigge di descrivere.
Nel mondo reale, infatti, i “cancellati” esistono, ma non hanno molto da spartire con quelli che finiscono sui giornali: registi multimilionari che hanno avuto problemi con l’uscita di un film dopo una mobilitazione online, autori di bestseller costretti a saltare un giro di pubblicazione per una polemica riemersa a decenni di distanza, giù fino al caso di quell’università mai sentita prima che – forse, magari, chissà: così ha scritto un tabloid inglese, vai a sapere – vuole mettere al bando Omero, troppo maschio e troppo bianco per continuare ad avere appeal.
In realtà la cancel culture, quella vera, è l’inevitabile sottoprodotto di una società che comunica su piattaforme digitali costruite appositamente per stimolare i comportamenti aggressivi e dare briglia sciolta all’istinto del gregge, alle logiche ricattatorie dell’influencer marketing e alla divisione rituale della società in compartimenti stagni.
Nel Panopticon digitale impazzito in cui ci siamo rinchiusi c’è un intero sottobosco di casi quotidiani e allarmanti di vittime collaterali degli algoritmi di TikTok e Instagram, solo che non ne parla nessuno: il pubblico chiede articolesse e servizi sull’ultima statua abbattuta, sul più recente libro di Philip Roth riscritto, sul prossimo film non girato da Woody Allen.
Emmanuel Cafferty
Certo, anche questi casi meritano una loro considerazione e una riflessione culturale. Ma focalizzarsi solo su di essi significa guardare il proverbiale dito che indica la luna. Un esempio eloquente di vittima dimenticata della viralità, che ho voluto citare nel mio saggio La correzione del mondo, si chiama Emmanuel Cafferty. Cafferty fino al giugno del 2020 lavorava alla San Diego Gas & Electric, una società di luce e gas della California meridionale.
Alla fine di una giornata di lavoro a mappare le condutture locali si era messo al volante del suo pickup, e dopo un po’ aveva messo una mano fuori dal finestrino per fendere l’aria californiana. A un semaforo uno sconosciuto gli ha mostrato il dito medio con fare aggressivo e ha iniziato a insultarlo, mentre faceva un gesto con la mano che Cafferty non aveva mai visto: unendo pollice e indice, come per dire “okay”. E gli chiedeva di imitarlo.
Il semaforo è scattato, i due sono ripartiti, ma si sono ritrovati appaiati all’incrocio successivo: l’altro automobilista continuava a inveire e a chiedere all’operaio di rifare quel gesto incomprensibile. Lui, avendo ormai concluso di avere a che fare con un pazzo, ha acconsentito: per quieto vivere, ecco il segno dell’Ok, presto immortalato con un click sullo smartphone da quel tizio strambo.
Peccato che, come scoprirà in seguito, quel gesto – che l’automobilista aveva riscontrato in una posizione assunta per caso dalla mano di Cafferty sospesa fuori dal finestrino – era l’okay sign, il segno di riconoscimento dell’alt right, il complesso parterre di razzismo e discriminazione che si era riconosciuto in Donald Trump. Cafferty, quarantenne proveniente da una povera famiglia latinoamericana, non aveva alcuna idea di cosa fosse l’alt right, né di essersi appena fatto fotografare in una posa da nazisti da forum internettiani.
Eppure a poche ore di distanza dai fatti, dopo che la sua foto con le dita chiuse a cerchio è stata postata su Internet, un emissario della San Diego Gas & Electric l’ha chiamato per dirgli che, da quanto emerso sui social media, il finora impeccabile Cafferty sembrava proprio essere un suprematista bianco. Il lunedì successivo è stato lasciato a casa: moltissime persone avevano chiamato il suo datore di lavoro per chiederne il licenziamento.
West Elm Caleb
Cos’hanno in comune Woody Allen ed Emmanuel Cafferty, uno stravaccato nel suo loft milionario a Manhattan ad ammettere candidamente che la cancel culture «non ha avuto conseguenze» su di lui, e l’altro a sbarcare il lunario nella periferia di San Diego dopo essere stato licenziato per colpa della decontestualizzazione sistematica dei social e l’ottusità dei suoi utilizzatori più hardcore? Nulla, appunto.
Come niente hanno a che spartire Blake Bailey, il biografo di Philip Roth accusato di molestie con ricadute molto discusse sull’opera che racconta la vita dell’autore de La macchia umana, e West Elm Caleb, un altro nome destinato all’oblio delle cancellazioni virali. Caleb, un ventenne di New York impiegato in un negozio della catena West Elm, è finito nel tritacarne degli algoritmi di TikTok dopo che all’inizio del 2022 una influencer, Kate Glavan, si è mostrata in video scossa dopo aver scoperto che il giovane aveva fatto sesso con una ragazza lo stesso giorno in cui era uscito con lei.
Da lì, per un insondabile mistero di concatenazioni algoritmiche, altre ragazze si sono fatte avanti: West Elm Caleb gli aveva raccontato bugie. O era sparito, facendo ghosting. Oppure ancora, in un altro caso, si era dimostrato freddo e aveva lasciato l’appuntamento anzitempo!. Nel giro di poco, la potente cassa di risonanza di TikTok ha reso un anonimo ventenne il simbolo di ogni malinteso, delusione e frustrazione insiti nell’educazione sentimentale, a tal punto che decine di migliaia di ragazze hanno iniziato a condividere brevi video di denuncia dedicati ai veri o presunti West Elm Caleb del luogo in cui abitavano, generando una serie infinita di segnalazioni e cacce alle streghe.
Nel mentre Caleb, come spesso accade, è stato individuato con nome, cognome, indirizzo di casa e link al profilo LinkedIn: tantissime persone hanno chiesto che venisse licenziato, chiamando anche direttamente lo showroom in cui lavora, mentre altre si sono limitati a sperare che gli venisse inflitta una punizione esemplare. A prescindere da ciò che si può pensare del suo comportamento con l’altro sesso, fare il farfallone fino a ieri risultava meno segnante.
Commentando un altro caso di esistenza rovinata da like e condivisioni, il sito Vox ha scritto di recente che «mentre diventavamo più abili nell’uso di Internet, siamo anche diventati piú bravi a distruggere la vita delle persone, ma da lontano, in modo astratto».
Eppure non c’è nulla di astratto nel produrre streghe per il solo gusto di dargli la caccia, come in un malinteso esercizio keynesiano, e nessuna diatriba attorno alla cancel culture ci salverà dall’onere di fare i conti con una società che accetta e promuove il tormento del prossimo.
Siamo più iperconnessi che mai, ma anche sinistramente feroci: e faremmo meglio a parlare di questo, prima che della sorte delle nostre statue.
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