Il punto non è se sia giusto o no trasformare Cent’anni di solitudine in una serie tv, ma riflettere sulla mostruosa potenza generativa dell’opera di Márquez, sul carattere mitopoietico della sua scrittura. La parola “cinema” viene dal greco “kínema” che vuol dire movimento, e la scrittura di Márquez è essa stessa quel movimento, perché Gabo ha cominciato a muovere quelle marionette da quando era un bambino nel villaggio fluviale di Aracataca, mentre ascoltava le storie di sua nonna Tranquilina Iguaràn, che gli ronzavano attorno come mosconi.
Nella raccolta Dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez, c’è un racconto intitolato La santa. Il racconto narra di Margarito Duarte, che trascinava un baule in cui era conservato il corpo della figlioletta morta da anni, vestita da sposa: all’apertura della bara, la bambina profumava di rose e le sue carni erano fresche come la schiuma del mare. Il suo corpo era incorruttibile e non poteva essere mangiato dai lombrichi.
E Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel García Márquez, obbedisce allo stesso sortilegio millenario: ogni volta che si prova a scoperchiare la tomba di questo romanzo, non si troverà mai un cadavere, ma un corpo sempre scandalosamente vivo, che profuma di farfalle gialle e di fiori carnivori.
Quando si va a rovistare tra la terra e le ossa di Cent’anni di solitudine, non si scoprirà mai un morto, ma una creatura dagli occhi aperti, proprio come Aureliano Buendía.
L’11 dicembre sono state rilasciate da Netflix le prime otto puntate della serie tv tratta da Cent’anni di solitudine è da anni che si parla di realizzarla, ed è da anni che il progetto è divisivo.
La più costosa produzione latinoamericana
C’è chi crede che toccare l’opera di Márquez equivalga a commettere una profanazione, un sacrilegio tale da generare bambini con la coda di porco, c’è chi ha seguito con curiosità la produzione, la più costosa della storia latinoamericana. La serie è stata girata interamente in Colombia, sono stati scelti attori colombiani e i figli di Márquez hanno dato la loro benedizione.
Una delle perplessità iniziali intorno al progetto riguardava proprio la portata della scrittura di Márquez: c’erano dubbi intorno alla possibilità di traslitterare Cent’anni di solitudine in prodotto audiovisivo, rinunciando al carattere affabulatorio e demiurgico dato dall’unica e sola scrittura di Gabo, che ha una potenza monumentale e egoista tale da bastare a sé stessa.
La prosa di Márquez è una bestia camaleontica e lussureggiante, è un serbatoio immaginifico e speziato, che si perde nel fango delle formiche rosse, è il real maravilloso di quelle creature che ti fissano dal fondo della foresta con i loro occhi gialli, pronte a azzannarti. Ma la scrittura di Cent’anni di solitudine è anche un ruvido naturalismo realista, perché Márquez non sarebbe mai riuscito a accordare la sua lingua senza aver letto William Faulkner (la traduzione di Enrico Cicogna aveva fatto il suo tempo, molto più efficace è la traduzione di Ilide Carmignani).
L’incipit
I registi Laura Mora e Alex García López hanno fatto una scelta ben precisa: seguire il dettato del testo márqueziano che, come l’astrolabio gitano di Melquíades, sa calcolare la posizione delle stelle.
Al pari degli astri, le parole di Márquez puntellano la serie, con la loro verità di sententiae mitiche: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio», l’incipit che Márquez recitò a memoria, come una folgorazione, durante un viaggio in macchina tra Acapulco e Città del Messico.
Se si solleva il coperchio del romanzo, dicevamo, non si potrà mai trovare un morto, ma la luce del mondo che si spezza in tante stelle colorate.
C’è Macondo, c’è il «mondo così recente che molte cose erano prive di nome e per citarle bisognava indicarle col dito», ci sono galli che combattono e c’è l’odore di bestia cruda. Ci sono attori che hanno lineamenti di terra e fumo, soprattutto Susana Morales e Cristal Aparicio: i loro lineamenti sembrano venire direttamente da un altrove di foglie morte, hanno corpi caraibici che raccontano una sensualità di sangue, piume e granelli di polvere.
Le attrici
Cent’anni di solitudine è un’opera sterminata che ha l’incedere dei miti precolombiani e il passo biblico, ha una forza ctonia e creatrice che non potrà mai essere mortificata, e la perplessità iniziale viene subito rovesciata.
Sì, perché la prospettiva da afferrare è un’altra: la scrittura di Márquez vuole tutto, è così onnivora e tirannica che pretende di convertirsi subito in altro, ma non per furberia, non per strizzare l’occhio a qualcuno o a qualcosa, non per marketing (non ne ha bisogno), non per altro, ma perché è un animale doppio, una creatura insaziabile che ha cento bocche, mille orifizi di metafore e altrettanti pertugi di analessi, prolessi e formule memorabili, scolpite con l’argilla dei secoli. E i personaggi di Márquez sono cosí ossessionanti, strabordanti e definitivi da diventare un archetipo, da esigere immediatamente una successiva incarnazione, un ritorno di fantasmi, una pelle ulteriore.
Ed ecco quindi la rappresentazione plastica di Jose Arcadio legato al castagno dei Buendía, di Aureliano che fabbrica pesciolini d’oro per addomesticare la sua solitudine, di Pilar Ternera con la sua risata che faceva spaventare le colombe.
Notevoli sono le attrici che interpretano Rèbeca Buendía (Laura Grueso) e la piccola Remedios Moscote (Cristal Aparicio). Grueso è una terribile e famelica Rèbeca, che si presenta alla porta dei Buendía con un sacchetto contenente le ossa dei suoi genitori, Rèbeca che si nasconde nel patio a mangiare la terra, sognando di leccare il terreno calpestato da Pietro Crespi: nei tratti somatici di Grueso c’è il sapore minerale che il romanzo lascia sulla lingua.
Lo sfarzo
Aparicio, invece, è Remedios Moscote: la serie tv per fortuna sceglie ancora una volta di usare le parole di Márquez, quando scrive «Remedios nel vapore del pane all’alba, Remedios nella taciturna respirazione delle rose, Remedios dappertutto e Remedios per sempre», recitate da un Aureliano allucinato da un amore che è temblor de tierra.
Remedios non è solo un personaggio, ma è l’allegoria lucente della scrittura, è la chiaroveggenza della narrazione, che traccia e conosce tutto prima ancora che si compia, e Márquez, da artefice, auctor e agens di sé stesso, sapeva benissimo che la sua scrittura aveva le fauci spalancate verso il futuro.
La serie tv è costruita in modo sfarzoso, e la Macondo della messinscena segue gli ordini márqueziani, che parlano di un villaggio dai ciottoli levigati come uova preistoriche: anche le penombre di candele e le ore calde della siesta fanno capo a un immaginario comune, che lo stesso Márquez ha inoculato in generazioni di lettori. Risulta difficile immaginarsi Macondo diversa, perché la tirannia generosa della scrittura di Márquez ha intagliato un medaglione esatto di Macondo.
Un sentimento di nostalgia
Il punto non è se sia giusto o no trasformare Cent’anni di solitudine in una serie tv, ma riflettere sulla mostruosa potenza generativa dell’opera di Márquez, sul carattere mitopoietico della sua scrittura. La parola “cinema” viene dal greco “kínema” che vuol dire movimento, e la scrittura di Márquez è essa stessa quel movimento, perché Gabo ha cominciato a muovere quelle marionette da quando era un bambino nel villaggio fluviale di Aracataca, mentre ascoltava le storie di sua nonna Tranquilina Iguaràn, che gli ronzavano attorno come mosconi.
Márquez ha scritto e riscritto la sua stessa vita compiendo un’inesausta opera di inventio, accordando una scrittura che basta a sé stessa ma che è anche materiale incandescente che si rimescola in continuazione.
Alla fine delle prime otto puntate, rimane un confuso sentimento di nostalgia, che fa venire subito voglia di tornare alle pagine del romanzo per rovesciare di nuovo la clessidra, e già questo basta come motivo di gratitudine. Rimane un sentimento di nostalgia bruciante, perché c’è ancora tanto bisogno delle storie, c’è ancora bisogno di qualcuno che sappia fondare una Macondo nuova e una mitologia nuova, specie in un momento in cui non si ha più voglia di inventare nulla, in cui la malizia narrativa del cuento e la trasfigurazione non sono più cosí frequenti. C’è bisogno di tornare a Macondo, di disegnare nuove farfalle gialle e di costruire pesciolini d’oro, c’è bisogno di scoperchiare una tomba e trovarci una bambina che ci guarda, con gli occhi di brace e il respiro di una rosa selvatica.
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