- Da Santa Marta un autobus locale porta in un paio d’ore ad Aracataca, un paesino che lo scrittore ha reso famoso con il nome di Macondo.
- Ad Aracataca il futuro scrittore nacque nel 1927 e visse la sua infanzia nella casa dei nonni materni, che nel 2010 è stata restaurata ed è diventata un museo. Visitarla significa entrare nel mondo dei Buendía, e conoscere o riconoscere il teatro della saga che copre sei generazioni della famiglia.
- Ogni angolo della grande casa ricorda qualche episodio del capolavoro di García Márquez. Ci sono il laboratorio del nonno colonnello, con i pesciolini d’oro che egli modellava. La cucina della nonna, con le caramelle a forma di animaletti che ella preparava.
Santa Marta di Colombia, fondata il 29 luglio 1525, è la più antica città del Sud America. Per la sua invidiabile posizione, affacciata sul mar dei Caraibi e distesa ai piedi della Sierra Nevada, viene chiamata la perla delle Americhe. Qui gli spagnoli misero gli occhi sui gioielli degli indios tayrona, alcuni dei quali sono sopravvissuti alle loro razzie e si possono ancor oggi ammirare nello straordinario Museo dell’oro di Bogotà. Da qui partì la folle corsa all’El Dorado, che saccheggiò il semicontinente sudamericano. E qui morì il 17 dicembre 1830 “el libertador” Simon Bolivar, i cui ultimi anni di vita sono stati romanzati da Gabriel García Márquez in Il generale nel suo labirinto (1989).
Crescere a Macondo
Da Santa Marta un autobus locale, sul quale può capitare di sedere vicino a un “gallero” che tiene in grembo un paio di galli da combattimento, porta in un paio d’ore ad Aracataca, un paesino che lo scrittore ha reso famoso con il nome di Macondo. Molti lettori di Cent’anni di solitudine (1967) non sanno, infatti, che il mitico luogo descritto nella bibbia del realismo magico sudamericano partecipa della doppia natura di quello stesso movimento letterario. Cioè, da un lato, è tanto reale da essere addirittura stato invitato come paese ospite alla Fiera del libro di Bogotà nel 2015. E, dall’altro lato, è tanto immaginario da suscitare un’idea diversa in ciascun lettore del libro di García Márquez.
Ad Aracataca il futuro scrittore nacque nel 1927 e visse la sua infanzia nella casa dei nonni materni, che nel 2010 è stata restaurata ed è diventata un museo. Visitarla significa entrare nel mondo dei Buendía, e conoscere o riconoscere il teatro della saga che copre sei generazioni della famiglia. La prima delle quali è appunto quella dei nonni, che al piccolo Gabriel comunicarono le due opposte visioni della vita che il romanzo fonde insieme.
Il realismo glielo insegnò il nonno, il colonnello Nicolas Márquez, che il nipote descriverà come «il mio cordone ombelicale con la storia e la realtà». La vita del colonnello fu così complessa e movimentata, che lo scrittore dovette spalmarne gli eventi su più di un personaggio di Cent’anni di solitudine. Fu il nonno che, come il patriarca José Arcadio Buendía, da giovane assassinò un uomo in duello, peregrinò in un lungo esodo e trovò nel 1910 la terra promessa in Aracataca, dove farà conoscere al nipote il circo e il ghiaccio. E fu lui che, come il colonnello Aureliano Buendía, combatté con i liberali che persero la Guerra dei mille giorni del 1899–1902, e violò ostinatamente il silenzio imposto dal regime sul massacro degli scioperanti nelle piantagioni di banane avvenuto nel 1928.
Il magico lo inculcò invece a García Márquez la nonna, l’affabulatrice Tranquilina Iguarán, che affascinava e terrorizzava i bambini di casa con storie di morti viventi e altre superstizioni religiose e profane. Il mito fondatore di Cent’anni di solitudine ricorda che nel 1965 lo scrittore stava guidando con la famiglia per andare in vacanza ad Acapulco, capì improvvisamente come avrebbe dovuto raccontare il romanzo, fece un’inversione a U e tornò a casa a Città del Messico per scriverlo. La mossa vincente fu la scelta di raccontare l’improbabile e il fantastico come se fossero verosimili e reali, alla maniera appunto di sua nonna.
Fu lei a ispirare direttamente il personaggio di Ursula Iguarán, moglie del patriarca e madre del colonnello. Come lei divenne cieca da vecchia, e proprio per questo non poté più accudire i bambini dopo la morte del marito nel 1937. I nipoti lasciarono dunque la casa dei nonni, ma Gabriel non la scordò mai: non a caso, il suo primo progetto letterario fu un romanzo fiume intitolato La casa, che vent’anni dopo si tramutò nel suo capolavoro.
Visitare la casa
Il suo primo libro pubblicato fu invece Foglie morte (1955), i cui tre personaggi sono modellati su lui stesso, la madre e il nonno. La storia è già ambientata a Macondo: il vero nome di un’azienda nei dintorni di Aracataca, che aveva un ufficio e un’insegna proprio di fronte alla casa dove il piccolo Gabriel viveva. Nel romanzo compaiono già il colonnello Buendía, la Guerra dei mille giorni e la Compagnia bananera. E un lungo stralcio, pubblicato autonomamente come il Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo (1955), ricorda un vero diluvio del 1932 e anticipa i quattro anni di pioggia che distruggeranno il paese in Cent’anni di solitudine.
All’entrata della mitica casa di Aracataca il visitatore è accolto da uno sciame di enormi farfalle gialle di legno deposte sulle siepi. Era la nonna a dire di vederle volteggiare ogni volta che veniv a l’elettricista ad aggiustare le lampadine nella casa. E il nipote le fece volteggiare nel suo romanzo attorno a Mauricio Babilonia, il meccanico di cui si innamora Meme, la prima esponente della quinta generazione dei Buendìa.
Oltre le siepi della casa si stende il lungo corridoio, fiancheggiato dal giardino delle begonie. Margot, la sorellina allevata con Gabriel dai nonni, ne mangiava di nascosto la terra per evidenti problemi di disadattamento. Fu poi curata e crebbe normalmente, ma nel mondo immaginario di Macondo divenne l’orfana Rebeca, accolta nella casa dei Buendía come una figlia, allevata con la seconda generazione, e in seguito espulsa dalla casa con il fratello adottivo José Arcadio per la loro relazione quasi incestuosa.
Il motivo per cui Gabriel e Margot furono allevati dai nonni è che, poco dopo la nascita del primo, suo padre Gabriel Eligio García si trasferì a Barranquilla come farmacista, dopo essere stato telegrafista ad Aracataca, nell’ufficio che ancor oggi si può visitare dietro la chiesa. Il suo matrimonio con Luisa Márquez era stato avversato dal colonnello, che non vedeva di buon occhio il pretendente per molte ragioni: era figlio di una donna sedotta e abbandonata a quattordici anni, apparteneva al partito conservatore, non nascondeva la sua natura di cascamorto e aveva già tre figli illegittimi.
La ragazza fu allontanata dagli occhi del pretendente, con la speranza che si allontanasse anche dal suo cuore, ma egli continuò imperterrito a cantarle serenate, scriverle poesie e inviarle telegrammi, e dopo un anno il futuro suocero capitolò. L’epico corteggiamento dei suoi genitori venne dapprima echeggiato da García Márquez in Cent’anni di solitudine, nella relazione tra Aureliano Secundo, della quarta generazione dei Buendía, e la nobile Fernanda del Carpio. E fu poi dilatato nel mezzo secolo di struggimento dei protagonisti di L’amore al tempo del colera (1985), per scrivere il quale il figlio si fece a lungo raccontare dal padre e dalla madre, separatamente, l’infiorita storia del loro fidanzamento.
Ogni angolo della grande casa ricorda qualche episodio del capolavoro di García Márquez. Ci sono il laboratorio del nonno colonnello, con i pesciolini d’oro che egli modellava. La cucina della nonna, con le caramelle a forma di animaletti che ella preparava. La grande sala da pranzo all’aperto sotto il portico, dove si riuniva la famiglia. Il maestoso albero con le enormi radici, che fornì riparo al vecchio patriarca negli anni della sua demenza senile. La casetta dei servi, nella quale lo zingaro Melquiades compose le sue pergamene.
Profezie e apocalisse
Ma anche altri luoghi di Aracataca rimandano a Cent’anni di solitudine. Ad esempio, la biblioteca comunale dedicata a Remedios la Bella, della quarta generazione. Il monumento a lei dedicato, nel luogo della sua supposta ascensione al cielo. La stazione ferroviaria, con il treno che trasportò i cadaveri degli scioperanti. E la tomba di Melquiades, ultima fittizia aggiunta al paese reale da parte di un immaginario discendente dei Buendía che veramente vive nel paese.
Ed è proprio il profetico e poetico zingaro a costituire nel romanzo l’alter ego interno dello scrittore esterno. È lui che nella finzione scrive profeticamente e in codice tutta la storia dei Buendía, che solo cent’anni dopo l’ultimo esponente sopravvissuto della famiglia, Aureliano Buendía, riuscirà a decifrare. Troppo tardi, però, perché nel frattempo le formiche si sono mangiate il cadavere del suo unico bambino e il Diluvio Universale ha distrutto Macondo, in un’Apocalisse che fa da contraltare al mito iniziale della sua Genesi.
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