Forse il solo modo di parlare di una tragedia come questa guerra senza europea aumentare il rumore, cioè la confusione delle menti e dei cuori, è guardarla dalla distanza giusta: che come sempre nelle cose dello spirito non vuol dire banalmente col giusto distacco, ma paradossalmente con la giusta vicinanza. In prima persona. Con la cognizione del dolore e il sentimento della ragione, che sono due nomi della filosofia, accademica o no. Di fronte alla tragedia in corso la domanda più urgente è: dove, propriamente, è il male? Dove c’è più maschio e meno speranza? Qual è il cuore dell'inferno, quello che non ha più alcuna prospettiva, per chi lo attraversi, di uscire a riveder le stelle?

Si potrebbe credere che sia il fondo dell'imbuto, dove tutto è buio, immobile e gelato, dove non c’è più vita possibile: dove, come un verme conficcato nel cuore della terra, Dante colloca satana, mostruoso specchio della trinità, che macina nelle sue triplici fauci la carne straziata dei traditori.

Naturalmente non è così. Non nell'Inferno dantesco, ma nemmeno negli inferni umani. Su questo la vista del poeta ha di tanto oltrepassato quella dei suoi teologi di riferimento, ha gettato sulla nostra angoscia un tale fascio di luce, che a lui continueremo ad attingere per questa riflessione, avendo sotto gli occhi lo strepito dei media e delle opinioni ancora più che l'orrore delle bombe.

Al centro dell’inferno

Non nel fondo, ma nel centro dell’inferno (verrebbe da dire: adesso, non alla fine) il pellegrino dantesco, cioè ognuno corre il suo vero rischio mortale. Quello di oltrepassare un limite oltre il quale «Nulla sarebbe di tornar mai suso», impossibile sarebbe risalire alla luce.

Lo stesso identificato limite che il vescovo Tichon, anacoreta e uomo dello spirito, vede irrimediabilmente oltrepassato da Stavroghin, il pallido re dei Demoni di Dostoevskij, e glielo dice: lo sente perduto.

Il solo nome di Dostoevskij fa venire alla mente il limite estremo della stupidità: spegnere la luce dell'intelligenza di un genio solo perché era russo, dato che anche Putin è russo. Ma no, quella della stupidità è un’oltranza che ha un suo sicuro effetto, il riso irrefrenabile che suscita, e infatti nel suo piccolo è stata rimediata: anche se perfino questa stupidità è una delle possibili conseguenze dell'altra oltranza.

L’altra oltranza è quella che riguarda il sentimento della ragione. Il sentimento della ragione, davanti a un torto, è l’indignazione. È lo sdegno che infiamma san Pietro quando in mezzo al Paradiso erompe in un’invettiva di incontenibile violenza, e il cielo intero avvampa di santa collera, o forse di vergogna: «Colui che usurpa in terra il luogo mio/il luogo mio, il luogo mio che vaca/ de la presenza del figliuol di Dio/ fatto ha del cemeterio mio cloaca/ del sangue e de la puzza, onde il perverso/ che cadde di quassù, laggiù si placa…».

Perché, non c’è possibile sdegno sacrosanto? Non ci son cose che “gridano vendetta al cielo”? Non c’è, ed è impossibile che ci sia, guerra giusta? È questa l’oltranza? No.

Il conflitto per avere ragione

Può anche darsi che guerra giusta non possa esserci, ma non perché non può esserci sacrosanta indignazione, ira “divina”. Non è il sentimento della ragione, l’oltranza. È il sentimento della ragione.

Il sentimento di aver ragione, che per timore d'esser contraddetto, di svelarsi inganno e autoinganno, di rivelarsi torto, si chiude in un solo blocco di ferro, opaco, ermetico, e lo chiama sé stesso. Sono io, sono le mie ragioni, è la mia identità.

Di questo ferro che il fuoco non scioglie sono le mura di Dite, il basso inferno, il cuore dell'inferno profondo. Ciascuno di noi lo sa bene, di che ferrigna impenetrabilità è la cerchia difensiva di questo cuore.

Dante la rappresenta con l’impenetrabile chiusura che le mura di Dite, difesa dalla furia delle Erinni, oppongono al tentativo del viaggiatore e della sua guida, Virgilio, di aprirsi un varco verso il basso inferno.

L’ira è una passione bifronte, incendia i santi in paradiso come giusto sdegno, e nella sua degenerazione viziosa può ridurre l'uomo a un pazzo furioso, come nella cerchia degli iracondi della palude stigia, che circonda la rocca infernale.

Strana passione, questa che diede nome allo strato più mobile - e più nobile - del cuore, o all'anima guerriera che si arma a difesa del suo signore, la ragione. L’ira che diede il nome all'anima “irascibile”, la sede delle emozioni. L’ira che è il thumos dei guardiani del giusto, degli angeli e dei guerrieri.

Noi vogliamo aver ragione. Nell’uomo ogni conflitto, ogni discordia passa per l'affermazione di una ragione e di un diritto. E diventa disputa e guerra, conflitto di valori. In fondo anche il basso inferno si difende con una sua disperata coerenza. Questo non gli ha mai vinto

Il basso inferno non contiene più la gente travolta dalle sue passioni, gli incontinenti. Si stringe ciò ai lucidi, a quelli intorno che volevano che hanno fatto. Il diavolo non ha carne, le sue passioni sono gelide.

Più avanti del maschio di Milton

Ecco: ma non è qui, dall'incontinenza alla malvagità, il passaggio verso il male che non ha più salvezza possibile. Oh no: se fosse solo qui, ci basterebbe il satana di Milton a far chiarezza sull'enigma del male. Ahimè, questo satana assomiglia proprio ai cattivi delle favole e dei film.

È cattivissimo, sa di esserlo e proclama orgogliosamente la sua cattiveria, in perfetta armonia col mondo dei buoni, che la proclama a sua volta. No, un po’ più di questo noi abbiamo capito del male. Quello non è un enigma. È un poliziesco. L'Europa di Dante, quella di Dostoevskij, è più avanti di così nella difficile intelligenza del maschio. Più avanti dell'occidente di Milton.

Dov'è allora il passo dell’oltranza, la via di non ritorno? Noi vogliamo aver ragione. E questo può voler dire due cose. La vogliamo avere a tutti i costi, semplicemente perché le nostre ragioni coincidono con noi stessi, rinunciarvi è morire.

Oppure vogliamo che le nostre convinzioni, le nostre decisioni, si sottomettano alla giurisdizione della ragione. Che vuol dire, in primo luogo, alla diffidenza nei nostri propri confronti. Socrate era divorato da un demone, anche lui: ma un demone autocritico. Che diceva di no alle pulsioni assertive, prima occorreva verificare.

Ascoltare le ragioni altrui. A volte aver torto è veramente come morire, come sradicarsi. Ebbene, scrisse un Socrate del Novecento e un perseguitato dai nazisti, di nome Edmund Husserl: «La radice non conta».

Neppure quando è questione di valori, perché i giudizi di valore non sono affatto meno falsi o veri, meno confusi o chiari di tutti gli altri: verificarli è sempre tanto arduo quanto indispensabile. E per questo, niente è più importante del sentimento della differenza fra il vero e il falso, fra il giusto e lo sbagliato, fra le buone e le cattive ragioni: anche se qualcuno questo lo chiama già “neopanglossismo” , roba da professori irenici. (Giovanni Orsina, La Stampa, 2 marzo).

L'oltranza del maschio
 

Silhouette of a soldier against a sunset landscape

Ecco: la vera oltranza del male, allora, è l’in-differenza che si cela dietro al sentimento cieco della ragione. Al chiudere gli occhi ai controesempi, le orecchie alle obiezioni. C'è un passo in cui questa indifferenza appare: là dove la ricerca di giustificazione si rovescia nel suo contrario.

Nella scena di Stavrogin e Tichon è la falsa confessione che nel suo spettacolare istrionismo si fa auto assoluzione, come quella di Nerone con la lira in mano. Nell'Inferno dantesco è il volto di Medusa.

Io sguardo di Medusa uccide l’anima. Perché Medusa ha il volto dell’indifferenza. Il suo sguardo non dice solo la perdita di una certezza morale, ma del fondamento di ogni certezza morale. Lo nasconde bene, nel dotto relativismo postmoderno, nelle filosofie sontuosamente tragiche e nichilistiche del Novecento, nelle false dottrine sulle ragioni della storia che ci esimono dal giudizio etico.

Ed è questa la filosofia inconsapevole che ci perderebbe se ce ne lasciassimo affascinare: l'asserzione di sé senza critica e dubbi, implicita nella teoria dello “scontro di civiltà”, paradigma di nichilismo.

Perché allora ciò che gonfia lo sdegno e le bandiere non sarebbe la sacrosanta rivolta contro l'arbitrio, ma la certezza inconfessata che non c’è un fondamento dell'aver ragione o torto, altro dal vincere o perdere. Allora il cavaliere angelico in lotta contro il drago ovviamente berrà il sangue del drago, e si farà drago egli stesso.

© Riproduzione riservata