«È meglio crepare felici piuttosto che piangersi addosso tutta la vita», c’è molto di Marcello Mastroianni nella frase che lui stesso pronuncia interpretando Raffaele il padre di Michele (Massimo Troisi) in Che ora è di Ettore Scola. C’è soprattutto una forma di disincanto vorace che terrà sempre ancorato Mastroianni alla necessità, soprattutto nel suo lavoro, di stare sempre con i piedi per terra. Non perdere tempo, lavorare moltissimo (circa centocinquanta i film che ha interpretato), ma non darsi mai troppa importanza, perché l’attore – a differenza di quanto credeva Leo Strasberg non è tutto, ma è solo un tizio – come disse Mastroianni al grande insegnante di recitazione – che si fa guidare da un regista e che in fondo pensa pur sempre prima di tutto ai fatti suoi.

Ed è forse nella parte finale della carriera di Mastroianni che apparirà in tutta la sua evidenza una filosofia di vita e quindi di lavoro capace di darsi sempre una misura (pur all’interno di una carriera smisurata e irripetibile), anche affidandosi, dagli anni Settanta in poi, a Ettore Scola capace di traghettare l’attore dai fasti felliniani a una nuova normalità, seppur ben distante da quell’uomo medio che lo vide divenire una stella del cinema con Luciano Emmer, Alessandro Blasetti, Mario Monicelli e Vittorio De Sica.

Scola coglie appieno la necessità di Marcello Mastroianni di evadere dal ruolo dentro il quale si sentiva imbrigliato e che semplificava in maniera sorniona in quello del latin lover. Un ruolo legato a un’estetica e a una bellezza che fecero certamente la sua fortuna, ma che avrebbero potuto anche rinchiuderlo in una forma di patetismo d’antan.

Vennero così i ruoli da Casanova vecchio, da padre vecchio e goffo come ad anticipare un’anzianità incombente, ma soprattutto un modo per misurarsi con una stagione della vita complicata e amara, quella delle ultime lune, come il dramma in due atti di Furio Bordon che lo rivide a teatro dopo decenni e che fu la sua ultima interpretazione.

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Lui e gli altri

Più di Gassman e di Tognazzi, Mastroianni seppe così ingannare il passare degli anni, forse anche per quella consapevolezza umile che lo portava a vedersi come un saltimbanco, una misura certamente più adatta per il mondo del cinema fatto di aggiustamenti, imprecisioni, di mezze figure e di persone capitate anche per caso. Un mondo che Mastroianni adorava come una giostra e che prediligeva al teatro proprio per la possibilità di non dare troppo peso al sé attore e di poter far filtrare una realtà spiccia in un mondo sì luccicante e fatto di sogni, ma pur sempre un poco posticcio.

A cento anni dalla nascita, come per altro già accadde per Vittorio Gassman e per gli altri grandi attori che lo hanno preceduto in questo anniversario, non è che ci sia in verità un grande profluvio d’iniziative, tanto più da parte delle istituzioni cosiddette competenti. Spicca così nel nulla, Marcello, come here, una piccola mostra fotografica curata con passione e volontà da Laura Delli Colli e inaugurata durante i giorni del Festival di Venezia sull’isola di San Servolo. Un’esposizione che restituisce quanto meno un ritratto completo della carriera artistica e della personalità di Mastroianni. Un omaggio del Centro Sperimentale di Cinematografia fortemente voluto da Sergio Castellitto che comprende anche alcuni significativi frammenti audio dalla masterclass che Mastroianni tenne nel 1988 proprio al Centro Sperimentale.

Lui e Fellini

Seppur non totalmente privo di una formazione attoriale – frequentò il Centro universitario teatrale – sarà con Luchino Visconti a teatro che Mastroianni prenderà piena coscienza delle sue qualità attoriali. Due incontri quello con Luchino Visconti e subito dopo con Federico Fellini che saranno sostanziali nella sua carriera, offrendogli due prospettive difficilmente così diverse. Una fortuna come ribadirà sempre negli anni con quel fare tanto disincantato quanto riconoscente.

Quella con Fellini sarà una relazione solida e totale: per tutta la vita. Fellini e Mastroianni saranno l’uno per l’altro dei compagni di giochi legati da un’amicizia indissolubile: «Io e Federico abbiamo un rapporto basato sulla reciproca sfiducia. Comunque il periodo del La dolce vita è stato il più bello della mia vita».

Non è dunque semplice indagare una tale complessità fatta di interpretazioni che diverranno riferimenti assoluti, sia nei loro aspetti più sostanziali relativi all’approccio al personaggio, sia nella loro superficie fatta di uno stile estetico copiato e citato negli anni all’infinito. Un’indagine che riesce però efficacemente a Giulia Muggeo che con Marcello Mastroianni (Carocci - 112 pagine, 13,00 euro) evita il semplice e banale percorso critico biografico portando in superficie l’ambiguità dolce dell’interprete, senza mai sforare in uno sterile gossip da celebrità o peggio nella ripetizione di una stanca e retorica nostalgia. Anzi proprio attorno alla nostalgia Giulia Muggeo riesce a definire quella specificità che fu di Mastroianni che seppe contenere l’icona della sua storia cinematografica portandola in giro per il mondo come uno strumento di racconto e non come una celebrazione.

Mastroianni infatti andò curiosando per le varie cinematografie facendosi accompagnare tra gli altri da registi come Nikita Michalkov, Theo Angelopoulos, Manoel de Oliveira e Raúl Ruiz. Un viaggio che prese avvio negli anni Ottanta e non si fermò fino a quando ne ebbe le energie.

In un tempo in cui la riduzione del cinema italiano da mondiale a locale era ormai evidente, Mastroianni cercava nuovi lidi e nuove nicchie portando con sé la memoria di una gloria certamente invecchiata, ma anche non riducibile. Una capacità di disseminazione che lo ha liberato dal ruolo riduttivo del latin lover anni Sessanta e che al tempo stesso lo ha reso un riferimento estetico da imitare (anche nelle pubblicità, come quella della Martini che vede Charlize Theron sfuggire da una sorta di Guido Anselmi, il protagonista di ).

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La mitologia ingombrante

Oggi probabilmente Mastroianni riderebbe e in parte soffrirebbe di questo continuo affiancamento al suo nome dell’aggettivo iconico, e come non dargliene atto. Lui che ha passato buona parte della sua carriera tentando di smontare una mitologia sempre più ingombrante si ritrova ora ad essere una figura iconica e in alcuni casi una vera e propria malattia per molti di quei giovani attori che lo vedono ancora come una possibilità, seppur irraggiungibile. E forse anche per questo il miglior omaggio che si poteva fare a Marcello Mastroianni è quello realizzato da Christophe Honoré che scrivendo e dirigendo Marcello mio ha rivelato una tensione e una malinconia che appartiene – più che a Chiara Mastroianni che nel film si crede suo padre –, al suo stesso pubblico, orfano non tanto di una star, ma di una possibilità d’essere che lui mostrava come a portata di mano quale una cosa semplice e fattibile.

Un uomo privo di ogni pulsione patriarcale, seduttivo quanto dubbioso di sé, mai indaffarato e pure sempre al lavoro. Bello in quanto naturalmente bello e non perché ossessionato dallo specchio, intelligente, ma certamente non perché nevrotico e tenebroso. Un uomo ricco di contraddizioni anche evidenti eppure sempre celate con discrezione. Contraddizioni mascherate dai ruoli interpretati e quindi buone per un mestiere che amava quanto la vita stessa e dentro al quale poteva rivelarsi là dove nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Come una burla, come un gioco e in parte lo era, ma in parte era anche il camuffamento di un’arte attoriale grandiosa e di un’esistenza complessa e sensibile che è inutile oggi indagare nei nomi e negli aneddoti.

Un’esistenza che si ritrova tutta nei suoi sguardi, nei suoi toni di voce e in quel passeggiare elegante, ma sempre un po’ perso, come alla ricerca di una nebbia rassicurante e di quella voce bambinesca che lo chiama Marcellino, alla ricerca di Mastorna e del suo viaggio. Un film scritto e provato, ma mai girato, un atto mancato rimasto come una possibilità, l’ennesimo scherzo di due magnifici burloni. 

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