A Pisa, a due passi dalla torre, abita una famiglia che ha un fiuto sublime per i disastri. E non per fuggirne, prima che diventi troppo tardi, ma per finirci dentro con tutte le scarpe. E dopo un nonno, disperso durante la guerra in Etiopia e rimpatriato con disonore, e un padre inquieto e imprevedibile, chiamato Mutilo dal giorno in cui tornò a casa senza un mignolo, e una madre, Tiziana, ipocondriaca e amorevole un bel po’ oltre quello che la sua prole desidererebbe, i Benati hanno regalato al mondo un’altra generazione di sciagurati.

O meglio, di randagi. Il randagio è chi si aggira qua e là senza una meta e neanche una cadenza abituale. È chi suo malgrado vaga, forse sperduto, spesso da solo. È l’uccello sbrancato, che talvolta è coraggioso quando sarebbe meglio mostrarsi impaurito e altre volte è spaventato quando se fosse audace potrebbe cavarsela meglio di così. E randagia è l’indole raminga e inquieta, esagitata e ansiosa di chi, pure da fermo, ha il talento turbolento di venire sfocato nelle foto. Marco Amerighi ora ha portato i suoi Randagi, il romanzo pubblicato qualche mese fa da Bollati Boringhieri, tra i dodici candidati al premio Strega.

Carpione per un drago

Sul suo diario, in un appunto risalente all’agosto del 1933, Massimo Bontempelli riportò pari pari un articolo letto su un giornale. Per diversi mesi, la popolazione di un paesino inglese aveva vissuto nell’angoscia per la notizia di un drago apparso nel loro lago. Nessuno osava avvicinarsi all’acqua né tanto meno andare a pescare, finché un abitante di quel piccolo paese inglese si arrischiò a dare una controllatina, rendendosi conto che l’orribile drago altro non era che un carpione.

Siglò così, Bontempelli, la breve nota sul suo diario: «In questo modo nasce il mito poetico: quando di un carpione si fa un drago». Molti carpioni nuotano nelle acque mai quiete dei romanzi, e molti draghi lottano tra loro in quei fondali. I Benati sarebbero anche degli ordinari cittadini pisani, con le loro miserie e le loro avventure, ma si stagliano davanti ai nostri occhi come creature sguscianti e imprendibili. Fratelli come ce ne sono tanti, Pietro e Tommaso, che nelle mani di chi sappia raccontarli, però, acquisiscono molto più carisma di un comune pesce lacustre.

Imperfezione perpetua

I due fratelli – Pietro, quello timido e incerto, e Tommaso, il campione sportivo e lo studente modello destinato al successo – sono molto diversi, ma si vogliono un gran bene. Pietro ha studiato al conservatorio, per racimolare qualche soldo fa il turnista in diversi gruppi rock che suonano in Toscana, ma non ha curiosità per il mondo e, ad eccezione di quella del fratello, non ama la compagnia. Tommaso ha debuttato in serie A, ma ha lasciato presto il calcio, si è laureato alla Normale e subito dopo ha vinto un dottorato in mechanical engineering alla Columbia di New York.

«La perfezione non è altro che un completo adattamento all’ambiente; ma l’ambiente è in continuo mutamento, cosicché la perfezione può essere soltanto qualcosa di provvisorio», ci sono frasi come questa nel taccuino che W. Somerset Maugham tenne per una vita, dal diciottesimo compleanno al settantacinquesimo.

E questa frase del romanziere britannico sembrerebbe l’esatto contrario della tradizione familiare dei Benati, i quali cambiano perennemente, anno dopo anno, stagione dopo stagione, alla forsennata e disperata ricerca dell’imperfezione. E l’imperfezione, come la perfezione, è momentanea, è passeggera, è transitoria. Va aggiornata non appena la si raggiunge. Bisogna immediatamente rimboccarsi le maniche per essere più imperfetti di prima. E i Benati non si arrendono mai, sempre di corsa, nella loro smania d’imperfezione.

Catastrofi

Nello stesso giorno in cui Pietro, a Londra, ha un importante provino come chitarrista, nella casa di famiglia a Pisa arrivano i carabinieri per portare in carcere Mutilo, il padre, che avrebbe venduto alcuni farmaci di sua invenzione millantandoli come elisir anti cancro.

E quando il ragazzo decide di andare in Erasmus a Madrid, a studiare letteratura spagnola più che a divertirsi come tutti quanti gli altri, si ritrova in una città sconvolta dall’attentato alla stazione di Atocha. Tommaso, invece, ha lasciato il dottorato ed è andato nelle Ande. È a Madrid che Pietro incontra Dora. E allora l’estro famigliare per le catastrofi, già affilatissimo fin qui, con la nuova generazione di Benati diventa ancora più formidabile.

Lingua sciolta

Di solito le storie di famiglia che ci piace ascoltare, in cui come lettori cadiamo a picco, sono quelle che arrivano da famiglie a cui non vorremmo mai appartenere. Da cui non vorremmo neanche ricevere l’invito per un pranzo. Randagi è la storia di una famiglia disunita nelle disgrazie, una saga di provinciali che, tra caratteri indocili, talenti inespressi e amori travagliati, lasciano le loro sfuggenti tracce nel mondo.  

Come già avveniva per il primo, Le nostre ore contate (Mondadori, 2018, premio Bagutta opera prima), anche per questo suo secondo romanzo, la sensazione è che Marco Amerighi sia un narratore dalla notevole scioltezza affabulatoria: sembra cosparga la sua storia con la sciolina, quella sostanza cerosa composta da resine e idrocarburi solitamente applicata sugli sci per migliorarne le prestazioni, e come per gli sciatori anche lui ne guadagna in rapidità. Di esecuzione e di rappresentazione.

E però, nella sua velocità non c’è mai disinvoltura, che anzi spesso è un comportamento in malafede: Amerighi compatisce profondamente i suoi personaggi, li esorta a non arrendersi, e tributa loro tutta l’attenzione che meritano. E inoltre, soprattutto la vita di Pietro, quello che seguiamo più da vicino, ha il vantaggio di essere custodita da uno scrittore più comico che drammatico.

Con una vivacità anche farsesca, l’autore dà rifugio a tutta la sua provincia bislacca, tiene insieme la sciocchezza e il dolore, combina le facezie e l’atroce destino degli uomini, il gergo colloquiale e il lirismo. In un’euforia malinconica, ogni personaggio è legato all’altro da un nodo, in un’unica spira di corda che avvolge i destini di tutti, un nodo impossibile da sbrogliare, sia bagnando la corda con le lacrime delle madre, sia innamorandosi di una ragazza funesta, sia che si decida di interrogare le stelle delle Ande.

Come un pescatore

In una storiella a fumetti del 1946 della scrittrice e pittrice finlandese Tove Jansson, Mumin al mare, il padre della famiglia di amichevoli ippopotami risponde a un annuncio di lavoro per fare il guardiano del faro. Vorrebbe scrivere un romanzo e quale miglior luogo in cui farlo, confessa romanticamente alla moglie, se non in veste di guardiano di un faro?

In realtà papà Mumin durante quel soggiorno non riuscirà a scrivere un bel niente, neanche una riga, ma ogni giorno incontrerà al largo un pescatore, sempre in mare, sempre sulla sua barchetta e sempre con la canna da pesca. «Abboccano?», gli chiede tutte le volte che lo vede. «No, ma il tramonto è così bello», gli risponde quello. Oppure «No, ma il sole è così bello» o «No, ma la nebbia è proprio bella», o «No, ma l’alba è così bella», o anche «No, ma la mareggiata è così maestosa».

Il tempo passerà, passeranno i giorni e poi le notti, probabilmente non abboccherà niente, nonostante la superficie limpida del mare o malgrado essa, ma gran parte del lavoro dello scrittore sta nel rimanere su quella barchetta, con la canna da pesca in acqua, che ci sia il sole o i fulmini.

E lo si può mettere in burla quanto si vuole, persino tirando in ballo una famigliola di ippopotami parlanti, ma chi scrive come Marco Amerighi scrive i propri libri ininterrottamente, come tutti i giorni quell’altro va in mare, prestando orecchio a tutte le conversazioni che gli capitano intorno, a tutte le storie e le persone che conosce, cercando ovunque carpe che un giorno lui trasformerà in draghi.

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