- Negli spazi del Pirelli HangarBicocca l’artista, regista di 12 anni schiavo, ci conduce dalla luce delle riprese dall’elicottero della Statua della libertà (Static) alle tenebre del sottosuolo Western Deep.
- La mostra è curata da Vicente Todolí e organizzata in collaborazione con la Tate Modern di Londra, che ne ha presentato una precedente versione nel 2020, a cura di Clara Kim.
- Non poteva esserci luogo più adatto del Pirelli HangarBicocca, per gli ampi locali, dalle altissime pareti scure, per allestire una mostra di un artista che ha sempre concepito le sue proiezioni come sculture che invadono lo spazio segnando lo scorrere del tempo con il susseguirsi di immagini e suoni.
Tra gli artisti visivi più in vista nella scena internazionale che hanno dato vita attraverso il medium filmico a una forma d’arte incisiva e toccante, un posto di rilievo spetta a Steve McQueen (Turner Prize nel 1999), la cui notorietà va ben oltre il mondo dell’arte, essendo stato vincitore dell’Oscar per il miglior film nel 2014 con 12 anni schiavo.
Di questo artista, nato a Londra nel 1969 da genitori caraibici che vive tra Londra e Amsterdam, è adesso possibile vedere a Milano, nei grandi spazi del Pirelli HangarBicocca, una mostra che raccoglie opere di diversi periodi. La mostra è curata da Vicente Todolí e organizzata in collaborazione con la Tate Modern di Londra, che ne ha presentato una precedente versione nel 2020, a cura di Clara Kim.
Non poteva esserci luogo più adatto del Pirelli HangarBicocca, per gli ampi locali, dalle altissime pareti scure, per allestire una mostra di un artista che ha sempre concepito le sue proiezioni come sculture che invadono lo spazio segnando lo scorrere del tempo con il susseguirsi di immagini e suoni.
Un’arte così concepita implica che la dimensione dello schermo, o degli schermi accostati, risponda all’esigenza di presentare la proiezione con modalità non dissimili da quelle dell’esposizione di una scultura. A differenza di quanto accade dinanzi a un quadro o allo schermo in una sala cinematografica, infatti le proiezioni di McQueen richiedono sovente una visione da più angolazioni e non necessariamente da una posizione frontale.
Il peso dell’immagine
Ne è un esempio Static, un video del 2009 con ripresa in 35 mm trasferita in HD, la proiezione che apre la mostra. Static si focalizza sulla parte alta della Statua della libertà. Il rumore stereofonico del motore dell’elicottero da cui sono state fatte le riprese, il tremolio dell’immagine, il suo allontanarsi e avvicinarsi al nostro sguardo che osserva la proiezione dal basso contribuiscono alla percezione di trovarsi realmente a bordo dell’elicottero che ruota intorno alla statua. L’immagine ha un valore tattile, si avverte la natura del materiale con cui è realizzata la statua, ma anche il suo degrado.
La Statua della libertà è un’immagine iconica legata nell’immaginario collettivo al mito dell’America come terra promessa per gli emigrati disperati provenienti da tutte le parti del mondo.
In questo caso è il peso che l’immagine assume, il suo apparire come una forma concreta tridimensionale collocata in uno spazio temporale mobile e rumoroso, a far percepire Static più come una scultura che come una proiezione.
McQuenn ha inteso la mostra come un insieme in cui ogni opera, pur nella propria autonomia, va a interagire con le altre collocate a distanza nello spazio, senza seguire un ordine dettato dalla loro datazione.
Mette così in scena micronarrazioni che alla fine del percorso espositivo si ricollegano nella mente dei visitatori, dando vita a una narrazione e a una riflessione di più ampio respiro che amplifica il senso di inquietudine già innescato dalle singole proiezioni.
L’uomo che cade
In fondo alla navata dell’hangar, per esempio, su un altro schermo collocato anch’esso in alto, ci si trova dinanzi alla prima parte del video che compone Carib’s Leap, del 2002, girato in origine in 35 mm, della durata di dodici minuti circa e come tutti gli altri a proiezione continua.
Lo schermo è inizialmente di un bianco lattiginoso, colore che va virando leggermente verso un grigio-azzurro lasciando emergere qualche nuvola. Quando si mette a fuoco che si tratta della ripresa di un cielo ci si accorge anche di una figura umana che precipita al rallentatore.
Inevitabilmente la mente crea un’associazione con la Statua della libertà di Static, filmata nell’anno in cui era stata riaperta al pubblico dopo la chiusura dovuta agli attentati dell’11 settembre. Chi di noi non conosce l’immagine dell’uomo che precipita da una dalle Torri gemelle?
In realtà il riferimento è un altro episodio storico legato alla terra d’origine del padre di McQueen, l’isola di Grenada. È lì che l’artista ha girato la seconda parte del video Carib’s Leap, presentato su una delle facciate esterne dell’hangar. Nel video si susseguono scene di vita quotidiana nell’isola caraibica.
Lo stesso artista racconta di aver appreso dal padre che nel 1651 gli ultimi indigeni di un villaggio dell’isola, minacciati dai coloni francesi, si trovarono a scegliere se lasciarsi catturare o rifiutare la condizione di schiavitù togliendosi la vita lanciandosi da una scogliera alta quaranta metri. Il villaggio fu poi ripopolato da schiavi africani.
La libertà limitata
McQueen torna poi a interrogarsi su cosa significhi subire limitazioni della propria libertà e sulle questioni razziali in Sunshine State, un video a due canali della durata di mezz’ora, realizzato quest’anno e proiettato su entrambi i lati di due schemi accostati.
La narrazione si apre con due immagini telescopiche del sole e della sua movimentata superficie incandescente e con la voce dell’artista che recita sommessamente «Shine on me Sunshine State, shine on me» (Risplendi su di me, Stato del Sole, risplendi su di me).
Le due riprese del sole lasciano presto il posto alle sequenze in bianco e nero di The Jazz Singer (1927), primo esperimento nella storia del cinema di film sonoro con parlato in sincrono. Le immagini iniziali sono accompagnate dalla voce dell’artista che racconta un brutto episodio di razzismo di cui era stato vittima il padre in Florida, dove era emigrato dai Caraibi negli anni Cinquanta. L’uomo aveva rischiato di essere ucciso a fucilate per essere entrato in un bar frequentato da bianchi.
Sui due schermi si ripetono scene che appartengono allo stesso spezzone di The Jazz Singer, sfalsate cronologicamente o presentate in positivo o in negativo, tecnica che trasforma a tratti i bianchi in neri e i neri in bianchi.
Il protagonista di The Jazz Singer è un cantante ebreo in rotta con la famiglia perché si rifiuta di cantare in sinagoga per inseguire la sua passione per il jazz, un genere che ha le proprie radici nella cultura afroamericana. Nelle sequenze originali scelte da McQueen si vede il cantante, interpretato da Al Jolson, mentre si trucca il volto con del colore nero per presentarsi in scena come un jazzista afroamericano.
Nella versione di McQueen, in alcune sequenze il trucco rende il volto invisibile. Il continuo trasferirsi da uno schermo all’altro delle sequenze originali e di quelle manipolate da McQueen mette in atto una trasformazione di significato della narrazione del 1927.
Se infatti nel film originale l’uomo che si trucca con il cerone nero riesce con questo artificio a realizzare il suo sogno di musicista, nelle sequenze di Sunshine State man mano che si colora il volto di nero la sua testa scompare divenendo trasparente e cancellando tanto l’identità reale del protagonista quanto quella fittizia di cui si è appropriato.
Ad affiorare è la cultura razzista dell’epoca, che si manifestava non solo dei confronti dei neri americani, ma anche verso ebrei, italiani o irlandesi. In The Jazz Singer l’elemento razziale che affiora è ulteriormente rimarcato dal fatto che a interpretare un blackface è un ebreo.
Western Deep
Tra le diverse opere in mostra quella che rappresenta una sorta di punto di arrivo di un tragitto che comprende anche Moonlit (2016), due blocchi di marmo ricoperti di foglia d’argento, presentati come due preziosi frutti contenuti nel ventre della terra, è Western Deep, del 2002.
Per questo lavoro è stata prevista una piccola sala di proiezione con le pareti scure nell’area dell’hangar denominata “cubo”. Realizzata su pellicola Super 8 e trasferita in video, Western Deep (che è consentito vedere solo dall’inizio) si apre con un buio profondo accompagnato da un rumore metallico. Solo qualche lampo di luce illumina una grata e si cominciano a intravedere frammenti di volti e caschi protettivi.
Non è subito chiaro di cosa si tratti, ma si ha tuttavia la percezione che quella che ci viene mostrata sia una condizione di prigionia. Man mano che la proiezione procede ci si rende conto che si tratta di minatori che scendono in profondità nelle viscere della terra per raggiungere il loro luogo di lavoro.
Il cortometraggio è stato girato all’interno della miniera d’oro di Tau Tona, in Sudafrica, che con i suoi oltre tre chilometri di profondità è una delle miniere in cui le condizioni di vita sono rese al limite del sopportabile dalle alte temperature che mettono a dura prova la resistenza e la salute dei minatori.
Il carattere granulare delle immagini riporta a una tecnologia degli esordi. Nello stesso tempo però è proprio questa granulosità, associata al rumore metallico dei mezzi di trasporto e degli scavi, ai flash di luce e al ripetersi del suono delle sirene a far percepire la figura umana come fagocitata dalla terra, quasi stessimo assistendo a un rito di cannibalismo operato dalla madre terra.
Western Deep ci fa riflettere sul fatto che la civiltà dell’informazione digitale, in cui noi tutti viviamo, necessita di materie prime come il litio o il cobalto che sono estratte in luoghi nei quali i rapporti di lavoro ricordano le forme di produzione schiavile che hanno tragicamente caratterizzato la storia del mondo fino all’età coloniale.
I blood phones sono infatti stati associati ai blood diamonds, estratti, come è noto, da lavoratori-schiavi. In un momento storico spesso definito come postcoloniale, persistono dunque modelli arcaici che offendono la dignità umana.
Dalla luce alle tenebre
La discesa agli inferi descritta da Steve McQueen esprime la sofferenza di questi uomini, non la trasfigurazione della Catabasi che possiamo incontrare nell’ambito della letteratura classica, nell’Ulisse di Omero, nell’Eracle di Euripide, nell’Enea virgiliano. Siamo anche lontani dalla vittoria di Cristo sulla morte o dal viaggio di Dante all’inferno. McQueen si rivolge invece alla tragica condizione in cui tanta parte dell’umanità è costretta a vivere.
Il percorso della mostra ci accompagna in un viaggio dalla luce delle riprese dall’elicottero della Statua della libertà (Static) alle tenebre del sottosuolo (Western Deep). Curiosamente questa mostra presenta un iter opposto rispetto a quello della precedente di Maurizio Cattelan che, partendo dal contatto con la terra – l’uomo che dorme a terra accanto al suo cane – attraversando il buio della navata ci conduceva allo spazio del “cubo”, dove si era portati ad alzare lo sguardo verso l’alto per osservare un aereo nero incastrato su un blocco monolitico, anch’esso nero.
Sia nella mostra di McQueen che in quella di Cattelan, ovunque si volga lo sguardo, a prevalere è un senso di angoscia e oppressione. Ma mentre in Cattelan prevale la riflessione esistenziale, in McQueen prevale una sentimento di una sana e legittima ribellione.
© Riproduzione riservata