L’apollineo è forma, ordine, armonia, arte plastica, sogno. Il dionisiaco è ebrezza, abbandono del sé e della forma, danza. De Filippi incarna la negazione del caos, D’Urso ne fa un’arte. Entrambe hanno qualcosa in comune, ossia l’aver creato un pianeta di cui sono demiurghe
Nel 1872 Friedrich Nietzsche aveva 28 anni e pubblicava il suo primo saggio, La nascita della tragedia dallo spirito della musica. È un testo molto famoso, studiato, citato e criticato, oltre che da altri filosofi, anche dallo stesso Nietzsche. Il motivo principale per cui è rimasto così centrale non solo all’interno degli studi filosofici ma anche nella cultura di massa è che, un po’ come fa Umberto Eco con il suo Apocalittici e integrati, crea due categorie che Nietzsche definisce “impulsi”, l’apollineo e il dionisiaco.
Il derby dei due impeti essenziali che danno vita alla tragedia attica, l’unica vera tragedia che il filosofo contrappone a quella razionale e fredda di Euripide, dirottata dal pensiero di Socrate.
L’apollineo, che è forma, ordine, armonia, arte plastica, sogno, il dionisiaco che è ebrezza, abbandono del sé e della forma, danza, musica; insieme, e non in lotta l’uno con l’altro, i due spiriti si incontrano in modo complementare: «Sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca, secondo la legge dell’eterna giustizia».
A tutti piace tifare, a tutti piace far parte di una squadra, avere un segno zodiacale a cui appellarsi, una casata di Hogwarts in cui farsi smistare. Se apollineo e dionisiaco fossero due gusti di gelato, su Twitter ci sarebbero giorni di dibattito infiniti per quale dei due è meglio, come succede regolarmente con panettone e pandoro, cornetto e brioche, inverno ed estate.
Se invece la televisione generalista, quella popolare, di massa, quella che tiene in piedi il vecchio media che fatica a produrre nuovi miti e si appoggia su vecchi fantasmi cari e sicuri come Ciao Darwin e Ballando con le stelle, dovesse fornire due simboli che corrispondano agli impulsi tragici nietzschiani, non ci sarebbero dubbi su chi sarebbe chi.
Maria De Filippi è l’apollineo, Barbara D’Urso è il dionisiaco: la prima che incarna la negazione del caos, la seconda che ne fa un’arte. Maria con i suoi programmi scanditi dalle leggi e dai suoi interventi razionali e pacificatori, Barbara che danza nella giostra della follia delle emozioni stirate, dispiegate.
Entrambe hanno qualcosa in comune, ossia l’aver creato un pianeta di cui sono demiurghe, fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i loro pensieri, a immagine, somiglianza e cast. Una delle due però, è stata espulsa dalla grande galassia dentro cui gravitavano.
Bianco e nero
Al funerale di Silvio Berlusconi, Maria De Filippi era vestita di bianco. Lo hanno notato tutti, soprattutto le tre giornaliste incaricate di raccontare passo per passo l’evento, Cesara Buonamici, Barbara Palombelli ed Elena Guarnieri, che in diretta dal Duomo ha fatto da megafono inconsapevole del coro più memorabile di quella giornata in cui amore e morte si sono incrociati in modo sorprendente e commovente, fin troppo commovente.
«Chi non salta comunista è, è», urlano i discepoli di Silvio, tifosi del Milan, ultrà della Libertà, e i microfoni del Tg5 raccolgono tutto, anche le testimonianze più dissacranti – forse, a pensarci bene, le più gradite al defunto. Maria De Filippi indossa il bianco come omaggio a Silvio Berlusconi, così dicono, poiché per il Cavaliere tutte le donne dovrebbero splendere con il colore della luce stessa, e con un bel biondo da abbinare, ovviamente. In effetti, tutte le donne di Silvio sono state bionde, da Carla Elvira dall'Oglio, che sfoggiava un biondo ramato anni Settanta nei ritratti ufficiali di famiglia, passando per le folte chiome di Veronica Lario, le meches di Francesca Pascale e poi la desolante decolorazione di Marta Fascina, tanto estrema da sembrare quasi un segno di devozione verso il compagno, un voto di biondità. Maria segue la regola e rispetta il precetto, razionale, plastica, apollinea.
Durante quel funerale pantagruelico dove ci siamo abbuffati di iconografie del Novecento e passaggi al futuro distorto, lo stesso funerale che fu previsto da un’intelligenza artificiale pochi mesi prima della sua realizzazione, Barbara D’Urso era vestita di nero. Pizzo arcaico, sul volto la contritio cordis addolorata della prèfica che diventa più protagonista del protagonista stesso, ossia il morto.
L’immagine che è rimasta scalfita come un dipinto è quella di lei con le mani giunte, in preghiera, di fianco a Myrta Merlino, la donna che l’avrebbe sostituita da lì a breve nella conduzione del suo amato Pomeriggio 5. Una foto che è diventata una profezia autoavverante, quasi come se Barbara stesse pregando per sé, al funerale di un passato che non ritornerà mai più.
Ma Barbara è dionisiaca, caotica, una stella danzante, al punto da pubblicare un’altra foto in cui scimmiotta sé stessa nella medesima posa del funerale – del resto, lo diceva Gambardella in La grande bellezza, al funerale si va in scena.
Caos e sogno
Se Barbara annuncia sui social la sua dipartita da Mediaset, Maria non ha neanche un profilo Instagram. Se Barbara pubblica un post che è più una lettera aperta, il primo settembre del 2023, all’inaugurarsi della nuova stagione televisiva, in cui dice descrive con grande trasporto il sentimento verso la cacciata – «Ho creato e curato con amore quel programma per 15 anni ed è per me motivo di orgoglio che un programma nato, cresciuto e identificato con me, vada avanti mantenendo lo stesso nome» –, Maria entra di soppiatto in tutte le case degli italiani non solo con i suoi programmi ancora mastodonticamente centrali nel palinsesto della nostra televisione, ma anche tramite le estensioni capillari del suo impero.
Nella lista dei cantanti in gara a Sanremo 2024, il più ambito palco da tutti gli artisti del Bel Paese, ben otto sono della sua scuderia.
E mentre Elodie infuoca i palchi d’Italia scatenando dibattiti piuttosto obsoleti sulla nudità femminile rivendicata e usata come strumento di potere, su internet circolano periodicamente i vecchi video di lei con la divisa di Amici, capelli rosa, portamento da fiera borgatara.
In un modo o nell’altro, Maria c’è. Maria c’è, Barbara se ne va. Dopo gli anni mirabili in cui portava a casa quattro format contemporaneamente – nel 2019 conduceva nello stesso periodo il Grande Fratello, Live-Non è la D’Urso, Pomeriggio 5 e Domenica Live –, vera stakanovista della conduzione, chiusa l’ultima parentesi de La pupa e il secchione in cui si è tolta lo sfizio di farsi vestire da Nick Cerioni, forse per vendicarsi di quella retrocessione su Italia 1, Barbara parte.
Prende l’aereo, sua grande paura superata con la voglia di reinventarsi, e va a Londra a studiare l’inglese, poi a Parigi il francese, si racconta in questa sua versione neo-teenager con un biglietto extra lusso per l’InterRail. Perché Barbara, dionisiaca, è sempre azione, movimento, anche nelle foto e nelle pose celebri che assume per distendere ogni centimetro di gamba a disposizione, stirando i polpacci da danzatrice, allungando il collo da cigno.
Maria, apollinea, riflessiva, sta ferma dove è sempre stata, su uno spalto, sulla poltrona, lenta e pacata come le tartarughe che collezionava Maurizio Costanzo, chissà, magari perché gli ricordavano lei, che con la fretta non ha mai avuto molto a che fare.
Immobile, Maria è una statua all’interno dei suoi programmi di marmo, inscalfibili anche dalle fluttuazioni imprevedibili dell’audiovisivo, in un presente in cui è sempre più difficile creare storie lunghe che tengano incollati non tanto a uno schermo, ma a un telecomando che non ceda alla tentazione di aprire Netflix, Prime, Disney+, e tutte le altre in fila.
È dal caos danzante dursiano che sono nati mostri come Mark Caltagirone, e dal sogno razionale defilippiano che sono nate stelle come Annalisa. Tuttavia, l’opera d’arte totale, la tragedia, il vero senso della rappresentazione che libera dalle gabbie socratiche della ragione e del buon senso, esiste solo quando apollineo e dionisiaco si incontrano, non quando si separano.
Cosa succede dunque ora che i due apollineo e dionisiaco non sono più in grado di trovarsi, opposti e complementari, in nome della metafisica dell’arte?
Ognuno continuerà per la sua strada, mentre l’universo della televisione si accartoccia su sé stesso. Fino a quando non ci sarà una nuova Titanomachia, e a quel punto staremo a vedere chi divorerà chi, nell’universo mediatico moltiplicato e frammentato del presente, a cui un solo canale non basta più, né solo due impulsi essenziali.
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