La rom-com, intesa come commedia romantica, è quel tipo di oggetto filmico che alla prima visione fa venire l’orticaria, ma col tempo si rivela infestante, attrazione fatale e vizio segreto.

Pretty Woman, Notting Hill, Insonnia d’amore, Harry ti presento Sally, C’è posta per te, a giudicarli con lucidità, sono campi minati. Sono portatori sani di perniciose illusioni. Nessuna donna pensante li metterebbe mai tra i top five della vita, come da dilettevole sport caro al Nick Hornby di Alta Fedeltà (altra rom-com di culto, il film, per inciso).

Sono piaceri coltivati in segreto e ripassati innumerevoli volte, senza nemmeno l’alibi del recupero cinefilo dei padri classici, Ernst Lubitsch, Billy Wilder, Frank Capra. I codici della commedia romantica sono elementari, ma per assolvere al loro semplice compito richiedono dosaggi di alchemica precisione. Non è cinema da festival, ha un peso marginale nel pedigree degli autori, ma è come la cassetta del pronto soccorso: non ti accorgi che ti manca se non nel momento del bisogno.

Ci si lamenta pubblicamente della penuria di grandi capolavori, ma la carestia di rom-com è un tarlo privato. Nessuno ha intercettato questo mood meglio di Nora Ephron, con i suoi gruppi di ascolto che in Insonnia d’amore erano in lacrimosa dipendenza dal vecchio Un amore splendido.

Quel benedetto intervallo di spappolamento cerebrale è una risorsa, un puntello contro gli ordinari inconvenienti del vivere. Evasione non è la parola giusta: è abbassare le difese della ragione contro la legge dell’improbabile. I dadi sono truccati, ma l’imbroglio è a carte scoperte. Accetti di fare, per un paio d’ore, il merlo di turno.

Colmare il vuoto

Le miniserie, regine dell’era Covid, su questo specifico fronte chissà perché hanno fatto cilecca, perfino ai rituali appuntamenti con San Valentino, festicciola vintage di serie B. Non colma il vuoto di happy ending da lucciconi, ma almeno ci prova, la Jennifer Lopez di Marry Me, in sala dal 10 febbraio.

Da produttrice ben radicata nello showbiz , ha fiutato la crisi d’astinenza globale e ha lanciato alla nostalgia popolare una ciambella di salvataggio. Di più: partendo da una graphic novel di Bobby Crosby si è cucita addosso come una seconda pelle il personaggio di Kat Valdez, superstar pop incensata da duecento milioni di followers.

Si può non sbavare esattamente per JLo, ma c’è una componente di autoparodia nel glamour supremamente kitsch di cui si circonda che fa simpatia. Di verosimile e inarrivabile cattivo gusto è l’evento kolossal da cui la rom-com prende il via: il matrimonio-show in diretta tv della star con un altro idolo delle classifiche, sexy e latino come lei (è il colombiano Maluma, con cui JLo ha duettato nel 2020 nella hit Pa’Ti).

È l’amore ai tempi del business, pianificato per trainare Marry Me, la canzone del titolo, davanti a un pubblico di cinquemila selezionatissimi fans. È quel tipo di love story – squisitamente mediatica e ingigantita dai social – messa in satira di recente anche da Don’t Look Up. I patiti del gossip possono esercitarsi nello scavo del background biografico della finzione: il plateale ritorno di fiamma tra Jennifer Lopez e Ben Affleck ha dominato il red carpet della Mostra di Venezia. È comunque il pretesto, la partnership canora, per un mare di musica, tant’è che la soundtrack del film è già un album di coppia, zeppo di pop ballads e reggaeton.

Lopez è una donna polposa, non sfigurerebbe come presidentessa onoraria della Lega Mondiale contro le Diete, e anche questo, per le over 50 in sovrappeso, è di qualche conforto. Il simil nudo delle sue tutine continenti color carne, con brillantini strategici a mo’ di foglie di fico, sarà frutto di narcisismo ma è sanamente in controtendenza. Ora, questa fiera delle vanità con sponsor annessi e il palco truccato da altare sembra cronaca vera: solo per caso non ci ha ancora pensato nessuno.

È una materia che Kat Coiro, regista donna del film, governa con ironia. Sarà retorica di genere, ma JLo la rivendica come scelta di campo: sono registe donne anche quelle di Hustlers. Le ragazze di Wall Street, il suo film precedente, e del suo prossimo The Godmother.

A un passo dal fatidico “sì” il baraccone va in pezzi. Un video rivela le effusioni del futuro sposo con l’assistente di lei. Sconvolta e smarrita, Kat raccatta dal pubblico un tizio qualunque, nella persona di Owen Wilson: matrimonio a prima vista.

L’improbabile romance, finalmente, può prendere il via. La chiave di ogni rom-com che si rispetti è la paradossale diversità degli interessati. Fabbricare illusioni è la sua mission: è come quando si racconta ai bambini, sui banchi di scuola, che ognuno di loro può diventare presidente degli Usa. Nessuno crede davvero che il miliardario Richard Gere possa sposare Julia Roberts, o che la diva del cinema possa accasarsi col libraio di quartiere Hugh Grant. Si sta al gioco, perché qualcosa a questo mondo deve pur finire happily ever after. Lo spettatore saggio si ribella a questo sfruttamento della credulità, ma i danni per l’immaginario comune non sono poi irreparabili.

In Marry Me, Owen Wilson è puntualmente tutto quello che Kat non è: insegnante di matematica alle primarie, divorziato con strascichi, noioso agli occhi della figlia ragazzina. I copioni variano solo per la natura degli ostacoli da superare, gli inevitabili equivoci, le discese ardite e le risalite, come cantava Battisti. C’è poco da spoilerare, in questo tipo di cinema: la certezza dell’happy ending è un balsamo, il viaggio verso la meta un passatempo a perdere.

Meno remota della Whitney Huston di The Bodyguard, Lopez si concede il lusso di cantare, come lei, a volontà. Ma soprattutto fornisce dettagli istruttivi sulle fonti accessorie di reddito dei/delle suoi pari: i concerti privati dove «ti pagano una fortuna per cantare davanti a dieci persone straricche», gli spot per i grandi marchi. È un ottimo espediente narrativo, tra l’altro, per giustificare il product placement, ossia la pubblicità contrabbandata con vari sistemi, così fastidiosa nella maggioranza dei film.

Le frasi guida

I tempi cambiano, i principi azzurri godono di cattiva stampa anche a Windsor, e una riverniciatura femminista del vecchio canovaccio di Cenerentola è di rigore. «Perché aspettare che gli uomini ci chiedano di sposarli ? – proclama Kat via Instagram – Scegliamo noi l’uomo, e teniamoci il nome».

È vero, conta anche questo. Spesso sembra farina dell’attrice-produttrice, come la polemica contro un mondo che boccia le donne sopra i trentacinque. La ricca è lei, perciò le parti si invertono. Al posto del conto aperto in boutique di Pretty Woman, il ben più spettacolare regalo al professor Gilbert-Owen Wilson (e al film) è una Coney Island aperta e illuminata solo per loro.

Le convenzionali tappe di avvicinamento contempleranno, secondo i codici hollywoodiani, la discesa della Dea tra i comuni mortali: l’esperienza di palco può fornire consigli preziosi per l’ansia studentesca da prestazione. Mi suona strano scrivere di un film così, ma quando arrivi ai titoli di coda scopri che questo tassello da tanto, troppo tempo nell’offerta di cinema mancava.

Ho annotato il nome della costumista, Caroline Duncan, probabilmente per segnalare una sequela di outfit sconsigliabili alle persone di buon senso. Ma ho annotato anche le frasi-guida del film: «Se rifletti bene sulla domanda, la risposta ti troverà» (questa è di lui). E l’altra: «Se vuoi qualcosa di nuovo, devi fare qualcosa di diverso» (questa è di lei). Sibilline, ma da meditare.

 

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