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Pier Paolo Pasolini aveva rapporti con il sottobosco criminale delle borgate romane, dal quale otteneva informazioni sulla criminalità organizzata e sul linguaggio della mala.
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I Marsigliesi erano una banda di delinquenti che si dedicava a rapine, sequestri, traffico di droga e altre attività illegali nella Roma degli anni Settanta. Erano anche il terminale italiano della French connection, un giro di droga che arrivava in Italia da Marsiglia.
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La banda della Magliana era formata da giovani di borgata che lavoravano per i Marsigliesi, ma che poi decisero di mettersi in proprio. Cosa c’entrano con la morte di Pasolini? Che ruolo ha avuto il furto dei negativi di un film? E cosa ha scoperto, alla fine dello scorso anno, la Commissione antimafia?
Pier Paolo Pasolini amava apparire ben rasato e pettinato. Avanti negli anni aveva preso anche a tingersi di nero i folti capelli brizzolati; e a Roma era solito servirsi da un barbiere in piazza Trilussa, lo stesso da cui andavano Enrico De Pedis detto Renatino, Franco Giuseppucci detto il Negro e Giovanni Girlando detto il Roscio. Erano tre ragazzi di borgata che allora lavoravano per i Marsigliesi, ma si metteranno presto in proprio, dando vita alla banda della Magliana.
Questi giovani erano tra le fonti “dal basso” di Pasolini. Lo scrittore ha coltivato rapporti con il sottobosco criminale delle borgate romane, dal quale apprendeva notizie sul linguaggio della mala e, perché no, altre perniciose informazioni. A Giuseppucci e Girlando andrebbe aggiunto quanto meno l’autista dei “Marsigliesi” Antonio Pinna: «...ora Pier Paolo vorrebbe sapere da me i nomi di alcuni elementi della criminalità organizzata che si sono infiltrati nelle Brigate rosse», ha detto Pinna a Silvio Parrello, amico di Pasolini, nel 1975.
Pasolini forse avrebbe voluto farne accenno nell’Appunto 52b di Petrolio, ma di quella pagina nell’incompiuto romanzo rimane solo il titolo: “Il Negro e il Roscio”, per l’appunto Giuseppucci e Girlando.
Chi sono i Marsigliesi?
I Marsigliesi erano un branco di delinquenti che, negli anni caldi dello stragismo (ma anche della “dolce vita” romana) sembrava vivere in un mondo a parte, tra auto di lusso, cocaina e belle donne. Spendevano subito il denaro che entrava loro in tasca rapinando, sequestrando e spacciando, come se la vita andasse bruciata più che vissuta.
Di loro si è in parte smarrito il ricordo, ma, nella Roma dei primi anni Settanta, Bergamelli, Berenguer e Bellicini avevano fatto scuola, s’intende criminale. Le “tre B” avevano fatto irruzione nell’immaginario collettivo della microdelinquenza borgatara e nel vecchio scenario malavitoso del saccagno (il coltello) con metodi nuovi e più violenti, gestendo il gioco d’azzardo, le scommesse clandestine, la prostituzione, il contrabbando di sigarette e soprattutto il narcotraffico
Erano infatti il terminale italiano della cosiddetta French connection, quel giro di droga che proveniva dall’Asia, veniva raffinata a Marsiglia e poi irradiata nel mondo.
Quelli della Magliana
I Marsigliesi giunti a Roma erano anche specialisti nei sequestri di persona. Manco a dirlo, a loro spettavano la regia d’insieme e la gestione delle trattative, poiché a sequestrare (e a spacciare) provvedevano i loro apprendisti, reclutati nel sottobosco della malavita romana, oppure lo facevano i freelance del crimine, come il boss della Garbatella, Danilo Abbruciati.
Da questo variegato arcipelago microcriminale di borgata provenivano Maurizio Abbatino, De Pedis, Girlando, Giuseppucci, Antonio Mancini e altri tirocinanti, tutti a bottega dai Marsigliesi come Leonardo dal Verrocchio. Appartenevano ai gruppi della Magliana-Acilia e del Testaccio; sono gli stessi che dopo la carcerazione o la fuga dei loro precettori sapranno progressivamente consorziarsi nella ben più nota ed efferata banda della Magliana, in forza dei metodi spicci e dei rapporti altolocati avuti in lascito dai padri e padrini di Marsiglia, con Danilo Abbruciati a fare da ponte tra le due generazioni criminali.
Sotto il profilo organizzativo avevano preso a modello la nuova Camorra napoletana. A differenza dei Marsigliesi, quelli della Magliana reinvestivano il maltolto dei furti, dei sequestri e dell’usura nell’acquisto di nuova cocaina e di nuova eroina, ma anche (Marcello Colafigli, Ernesto Diotallevi e lo stesso Abbruciati) nel settore delle costruzioni e in altre labirintiche operazioni finanziarie: nella capitale, lungo la costa tirrenica e in Sardegna, contribuendo così a uno scempio edilizio di proporzioni sempre più mostruose.
Il 1975 è stato l’anno della morte di Pasolini, ma è stato anche quello di alcuni clamorosi sequestri di persona. La cosiddetta banda della Magliana non era ancora formalmente costituita. Presto si consorzierà in batterie e poi in vera e propria banda mafiosa, legata da «obblighi maggiori di solidarietà tra gli associati, i quali sono, pertanto, maggiormente impegnati e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare esecuzione alle stesse», come dirà Maurizio Abbatino ai magistrati il 13 dicembre 1992.
Oggi Abbatino è un collaboratore di giustizia. A questa figura apicale della criminalità romana l’allora capo del Sismi Giuseppe Santovito era solito inoltrare benauguranti saluti. Del resto, come ha segnalato il giudice istruttore bolognese Leonardo Grassi, la banda della Magliana è stata «utilizzata ripetutamente dai Servizi segreti quale agenzia per la gestione degli affari sporchi».
Una foto all’Idroscalo
Pasolini venne attirato all’Idroscalo di Ostia la sera del primo novembre del 1975 con la promessa che avrebbe riavuto i negativi del film Salò, rubati mesi prima alla Technicolor di Roma.
Ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia, Abbatino ha ammesso di essere stato uno degli esecutori materiali di quel furto, su mandato di tale Franco Conte, il gestore di una bisca clandestina nel quartiere romano della Magliana. Ma attenzione, secondo Abbatino «Conte conosceva Pasolini in quanto questi, occasionalmente, aveva frequentato il suo locale»; aggiunge anche di aver visto l’auto dello scrittore di fronte alla sua bisca. Sono notizie nella sostanza già note, perché su Pasolini ai commissari dell’Antimafia Abbatino non fa che ripetere le cose dette a Raffaella Fanelli nel libro-intervista La verità del Freddo (Chiarelettere, 2018).
Dunque Abbatino conosce l’auto di Pasolini, conosce i fratelli Borsellino (due dei sicari di Pasolini; con loro Abbatino ha rubato le pizze alla Technicolor) e forse conosce Pino Pelosi, indotto ad auto-accusarsi dell’omicidio di Pasolini.
D’accordo, nell’agosto 1975 Abbatino ha rubato le “pizze” di alcuni film, tra cui Salò di Pasolini. Ma che ci faceva questo tirocinante dei Marsigliesi accanto al corpo straziato dello scrittore la mattina dopo il massacro? In una fotografia di Antonio Monteforte scattata quel 2 novembre si vede anche lui.
La sua presenza tra il pubblico dell’Idroscalo era già emersa nel 2014, segnalata da Carmelo Abbate in Bolero, romanzo-verità che vede protagonista uno dei ragazzetti a sinistra nella foto: è il sedicenne Umberto Cicconi, nipote del boss della vecchia “mala” Ernesto Cicconi detto “Bolero”, i cinque punti della malavita tatuati sul braccio, futuro fotografo personale nonché fiduciario del leader socialista e presidente del Consiglio Bettino Craxi.
Come scrive il 23 luglio 2016 Aldo Colonna sul Manifesto, «si assiepano intorno al morto ammazzato lupi famelici riuniti a vario titolo e per conto di tribù diverse. Per sincerarsi che la preda morta lo sia davvero, per riferire a chi di dovere che il sabba si era concluso come da programma, qualcuno per farsi avanti ed offrirsi come manovalanza per altri e più “alti” incarichi».
Un omicidio premeditato
Che a uccidere un uomo prestante come Pasolini sia stato un diciassettenne mingherlino, ormai lo crede solo Marco Belpoliti (la Repubblica, 18 dicembre 2022). Nel 2010 sarà Claudio Marincola del Messaggero – un giornalista, e non un magistrato – a raccogliere le testimonianze di chi, in quella notte buia e senza luna, dalle baracche all’idroscalo di Ostia ha potuto, se non assistere, almeno ascoltare.
Nello stesso anno il Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri ha saputo isolare cinque tracce ematiche sugli abiti indossati da Pasolini. Al dunque, testimonianze e analisi scientifiche convergono nell’indicare che a uccidere lo scrittore non fu Pelosi ma un nutrito commando.
Altro che “lezione al frocio”: fu un omicidio premeditato. Secondo una informativa del Nucleo investigativo dei Carabinieri (5 giugno 2011) «gli aggressori», si osservi l’uso del plurale, «hanno voluto uccidere deliberatamente Pier Paolo Pasolini poiché le tracce dell’automobile rilevate sul terreno evidenziano inequivocabilmente che il conducente ha puntato il corpo del regista agonizzante a terra accelerando fin dall’inizio della corsa come a voler impattare il corpo dell’uomo al massimo della velocità e della potenza».
A riscontro di quanto già sostenne Sergio Citti, ribadito da David Grieco nel film La macchinazione.
Taci, l’amico ti ascolta
Ma c’è dell’altro: non è vero che Pelosi e Pasolini si incontrarono la prima volta solo qualche ora prima del delitto, come recitano le sentenze del 1976: i due si frequentavano da mesi e molti amici e parenti di entrambi lo sapevano: lo sapeva Nico Naldini, che addirittura glielo presentò (Pasolini a Dario Bellezza: «È amico di Nico»); lo sapeva Ninetto Davoli (Davoli a Pelosi nell’agosto 1975: «A’ Pi’, ’o sai che chi frequenti è un personaggio grosso... mi raccomando, comportate bene»); e lo sapeva Laura Betti, che qualche tempo prima del delitto una testimone ricorda seduta al tavolo di un ristorante con Pasolini e... Pelosi. Trent’anni dopo lo stesso Pelosi ammetterà che “quel signore” lui lo frequentava da luglio («Come ti chiami? Io mi chiamo Pier Paolo»). Altro “dettaglio”: Pasolini si era rivolto alla madre di Pelosi per alcuni lavori di cucito.
Né Naldini né Davoli né Betti né altri, forse per paura, se la sentiranno di smentire la bugia giudiziaria, e tanto meno di contribuire a far luce sul furto alla Technicolor di Roma dei negativi del film Salò usati come esca. L’avessero fatto, oggi non saremmo qui a lamentare, come si legge nella Relazione finale della Commissione parlamentare Antimafia, presentata alla fine dell’anno, le «omissioni particolarmente gravi» negli accertamenti immediati che, subito dopo il delitto Pasolini, «si sarebbero dovuti svolgere».
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