Con Mattia Torre bisogna avere certe cautele. Ad esempio scriverne, avendolo conosciuto, mi espone al rischio di patirne la mancanza e quindi di arrischiarmi nel territorio – da lui detestatissimo – del patetico. Ma patire, per quanto la radice del verbo porti alla mala foglia del sostantivo, è legittimo. Eccome. Mattia ci aveva convinto che la sua fibra lo avrebbe messo al riparo dalla catastrofe, quale che fosse, quali che fossero le forme del disastro.

E non certo perché si ritenesse immortale, ma per la ragione molto più semplice che aveva uno sguardo dritto, e chi guarda forte davanti a sé vede opportunità e risorse, sempre. Comunque, quello sguardo non è bastato a impedire la mesta meccanica della sottrazione di sé. Se n’è andato. Ora possiamo contare soltanto su quello che ci ha lasciato. E non è poco, per fortuna.

Mi sono progressivamente convinto che quella preoccupazione per il patetico fosse un aggiramento o un bizzarro derivato della ben più cogente preoccupazione che aveva a che fare con il riso, con lo spasimo di non cedere mai, ma proprio mai, alla facilità del comico. È come se lasciarsi sorprendere nel moto sguarnito di una commozione fosse più facile da stigmatizzare rispetto alla canagliesca volgarità, che Mattia aveva ben conosciuto nella franosa, guasta spettacolarità televisiva degli anni Ottanta, degli anni Novanta. Voleva far ridere il cinema. Voleva far ridere il teatro. Volevano far ridere anche i libri che da quelle tre fonti discendevano.

C’è stata una continuità di autori ma anche di codici creativi che hanno eroso – salvo rari casi – le maschere del comico, lasciando dentro la risata coatta del pubblico i segni di una troppo lunga stagione, non meno lunga del degrado della società civile e politica. Non sorprende che un uomo come Mattia Torre non provasse alcun imbarazzo a muoversi nel comico, malgrado la cornice allucinante: aveva in mente altro.

Era evidente. I monologhi con cui entra in teatro – complici una serie (poi sempre più lunga) di meravigliosi attori e di meravigliose attrici – sono tuttora prove di un’attenzione che si muove, avida e agile, dentro le scassate strutture di modelli comportamentali antichi, di ossessioni e persistenze, dentro il gioco di vuoti e di pieni che è l’Italia degli anni Novanta e del nuovo millennio.

Il percorso che idealmente conduce da un monologo come Gola del 2003 (compreso nel volume In mezzo al mare) a La verità (scritto nel 2017) è cadenzato da una formidabile attenzione critica nei confronti del nostro paese, quasi il paese fosse un interlocutore, un parametro di identità e un obiettivo polemico. Ed è, quella di Torre, un’attenzione che attinge a politica e antropologia, sfiora l’affondo sociologico, accarezza il turgore di una seduta psicoanalitica, e comunque, e sempre, centra la commedia.

Si riconosce il persistere di un’indomita ansia di raccontare lo sguincio, lo sbieco, l’incancrenito, di mettere al muro smorfie, consuetudini, costumanze, e in buona sostanza di entrare nel caos e far pulizia. Decreta in Gola: «È l’Italia è l’Italia è l’Italia questo strano paese a forma di spuntatura di maiale / è la magia, è la poesia dell’Italia», e principia secco il secondo racconto citato con «L’incapacità cronica dell’italiano di dire la verità».

Nervoso candore

C’è un’ammaliante frenesia di segnare e disegnare che cerca – e il moto è quello del dispettoso e ostinato insetto estivo – l’oggetto, che Torre trova, contempla, monitora e restituisce, segmento per segmento, ricostruito dentro la tana della sua immaginazione. A fronte di tanta ricchezza di intenzione la sua comicità recede da qualsiasi minaccia di abbandono e dall’imbastardimento. Quando bracca l’italiano lo fa con la malizia e la grazia di chi sa e, pur non perdonando, osserva allo spasimo, quasi il segreto di un’atavica fragilità fosse nascosto dentro l’enormità o la micro-sgangheratezza di un gesto.

A Mattia Torre l’effetto comico – vale a dire il singolare gap compreso fra l’esibizione di una convenzione e l’eco che produce – viene automatico, e rammentiamo come, al di là del tema “Italia”, con quale smagliante malizia ci lascia indovinare il passo ridicolo che accomuna gli umani quando vanno per le ridicolissime strade della loro socialità.

Mi è sempre sembrato di riconoscere un nervoso candore in quel guardare di cosa siamo fatti, come ci fosse in lui, nel suo andare a scovare fragilità ed erranza, stupidità e luogo comune, una disposizione fraterna, una disposizione che moltiplica i personaggi, anzi che moltiplica gli Io e li disperde nel territorio di quella che usualmente chiamiamo vita.

Mattia Torre ha bisogno di moltiplicare gli Io con cui ci parla – sì, certo, si dirà, il monologo teatrale, l’Io che si conquista la luce del riflettore – eppure in quella moltiplicazione c’è una propensione – evidente tanto sulla pagina quanto sulla scena – a giocare su registri diversi, a prendere in prestito voci, a scivolare dentro la folla per cadere, come una palla da biliardo, dentro la buca della rappresentazione: «Mancavo solo io». «Io quando mi masturbo lo faccio in grande stile, perché ho una certa età e una certa esperienza». «Io lavoro in questo ristorante e il sesso di gruppo pensavo di non poterlo fare mai».

«Sono di destra perché mi gira così». «All’inizio era il papà l’eroe, qualsiasi cosa facesse». «Io prima non andavo in analisi e non ci capivo un cazzo». «È che io sono contrario a tutte le novità». «Che io nella vita sociale devo rispondere all’etichetta di intellettuale di sinistra, viceversa nel traffico io sono un animale». «Che a me int’a cucina piace proprio spaziare gli oggetti come mi viene…». “Non ho mai amato gli scherzi e non so dire perché».

Chef, cameriere, paziente, persino moglie “perfetta” («Mio marito è una pianta, è un ornamento di casa, semovente, persino con una sua grazia…»), l’Io di Mattia Torre non è un virtuoso del trasformismo, e non mette neppure in gioco un furioso esercizio al catalogo. Scivola dalla maschera indossata alla maschera strappata, si intrufola in qualsiasi figura dalla quale la visione della macchina comportamentale sia netta.

Lo spinge un malessere entusiasta che, quando prende fiato in una innamorata malinconia quasi autobiografica, rivela – ma al contempo complica – le radici del comico; come in Figli («Sei un pezzo di un grande ingranaggio e, siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica.

D’altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande»), o ancora più sorprendentemente nell’“incompiuto” Buon anno, racconto di una festa di Capodanno a Parigi in casa di gay poco ospitali («avari e cattivissimi») che riservano all’Io vestito da Mattia una dura prova di tolleranza (o intolleranza?): una inattesa esplorazione della propria omofobia. E ancora nel già citato «Non ho mai amato gli scherzi e non so dire perché», dove è lui, decisamente lui, cristallino e imbronciato.

La linea verticale

Ho conosciuto Mattia Torre nel suo studio di via dei Banchi Vecchi, due stanze in cui per avere campo bisognava spencolarsi dalla finestra che dà sul cortile. Si pensava alla riscrittura in romanzo della serie La linea verticale.

Era pieno di dubbi. Ed era pieno di idee. Credo che questa fosse per lui una condizione naturale. Mi piaceva sondare i dubbi. Mi piaceva spiare le idee. (Dubbi e idee che per certo ci hanno accompagnato la messa in pagina del postumo e sorprendente A questo poi ci pensiamo.) La serie tv e il libro La linea verticale procedettero molto lentamente di pari passo, tanto che ci trovammo almeno in due occasioni – ma in particolare al Festivaletteratura di Mantova, con Valerio Mastandrea – a presentare libro e film senza che né l’uno né l’altro fossero ancora apparsi.

Il pubblico partecipava e applaudiva. Mastandrea leggeva da fogli dattiloscritti: «Quando ho saputo di avere un tumore sono morto all’istante. E poi, da quel momento, ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno, mese, è stato sorprendente e inaspettato. È stato un dono, come un morto a cui si dice: puoi vivere ancora, non si sa quanto, ma puoi vivere ancora. Basta fare un passo per volta». Veniva giù il teatro (che però era una chiesa).

Mattia Torre si muoveva in moto per le strade di Roma. Tanti lo fanno. Ma lui lo faceva in modo speciale. Balzava in sella con la pensosa esattezza del cavallante, e c’era un po’ di cowboy nella sua aggressione gentile al mezzo di locomozione, poi aspettava, redini in mano, che magari ci salisse il compagno, e il casco non impediva la conversazione, nel traffico ostile ma non abrasivo. Quella conversazione – complici, forse, le interferenze – continua ancora.

 

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