Murgia aveva capito meglio di tutti la potenza della disintermediazione nella comunicazione contemporanea e, senza nessun populismo, comunicava direttamente con tutti i linguaggi a disposizione: dai libri ai podcast ai post dei social. Ritratto di una scrittrice unica
Potenza è la parola con cui voglio ricordare Michela Murgia. La potenza della letteratura. La potenza delle idee. La potenza delle parole. Scritte e dette. Che si fanno azione. Perché il linguaggio è un incantesimo e le parole sono atti performativi e politici che producono la realtà. Narratrice, intellettuale e attivista. Radicale nelle idee, lucida nel pensiero, efficace nella comunicazione. Come nessuna nella nostra epoca. E poi sarda, indipendentista, cattolica, biblista, femminista. Per anni accanita giocatrice di ruolo, un imprinting strutturale e narrativo che ha forgiato e dato coerenza a tutto il suo pensiero.
Ora ascoltava incessantemente come una fan adolescente i Bts e studiava il coreano. Michela Murgia elaborava idee e costruiva relazioni. Tessendo e stringendo i nodi di una rete. Una rompiscatole eretica e spiritosa capace sempre di essere là dove mai l’avresti attesa. E di dire la sua. All’inizio di Accabadora, il suo romanzo più celebre, Einaudi, c’è una scena memorabile: una bambina di sei anni, Maria, che gioca ad impastare una torta di fango con le formiche vive. Ecco, Murgia le torte le ha sempre fatte come le pareva: «Le bambine decidono da sole che cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte».
Un gesto politico
Aveva annunciato la sua morte. Un gesto politico. Col suo smagliante sorriso, col suo sguardo ironico e penetrante un giorno mi ha guardato e mi ha detto: «Tutti dobbiamo morire. Certo, come disse Chiara Valerio, la morte degli esseri umani non è una notizia. Il corpo muore. Non è nemmeno una cosa solenne. È la verità di ciascuno.»
In un post aveva scritto: «Vado un po’ più spesso in ospedale, a volte all’improvviso perché il corpo sorprende e ieri mi mancava il respiro a causa del troppo liquido negli anfratti dei tessuti. Il livello delle cure del nostro sistema sanitario mi ha però fino a ora consentito di tornare sempre a casa stando meglio. Ecco, la risposta che vorrei dare a chi mi chiede continuamente come sto, che era quella che dava Cesare de Michelis: posso stare meglio, ma non posso più stare “bene”. “Meglio” è comunque preferibile a male, quindi godetene con me».
Nell’intervista al Corriere ad Aldo Cazzullo aveva detto: «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno. L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.»
Amici da tanto tempo, non avevamo mai lavorato assieme, ma c’eravamo sempre tenuti d’occhio. Quando abbiamo deciso di farlo, ho fatto l’editor del suo ultimo libro, Tre ciotole, Mondadori, Michela era già malata. E sapeva che non le restava molto tempo. Abbiamo lavorato e riso molto. A volte lei non aveva voglia di scrivere, la sollecitavo, lei non mi rispondeva al telefono. Era in ritardo, bucava le scadenze del nostro programma. E poi mi risarciva con pagine bellissime - e spiazzanti per chi si aspettava un memoir sulla sua malattia – che mi mandava senza preavviso affinché la chiamassi per festeggiare. Allora anch’io ritardavo la telefonata. Come in un gioco di seduzione reciproca tra amanti dispettosi. L’altro giorno mi ha scritto su Whatsapp: Alle cento festeggiamo. Michela non abbiamo festeggiato ma alle centomila copie ci siamo arrivati. Perché l’unicità di Michela Murgia è stata di essere assieme rigorosa, intelligentissima e popolare.
Una influencer con una comunità di più di mezzo milione di follower su Instagram e milioni di visualizzazioni quando i suoi video apparivano su TikTok. Con Alessandro Giammei, un suo fillus de anima, professore di letteratura italiana all’Università di Yale, che non solo conosce benissimo Michela ma ne ha studiato con acribia filologica l’opera, proprio in questi giorni abbiamo messo a fuoco quest’idea: che Murgia abbia usato i suoi post corsari di Instagram come Pier Paolo Pasolini ha usato il Corriere della sera per i suoi scritti corsari. Consapevole della propria epoca e della potenza della rete: e non solo quella digitale, ma la rete come metafora della tessitura concreta e politica delle relazioni orizzontali e non gerarchiche. L’ha realizzata tessendo una rete di nodi con le proprie amiche scrittrici Chiara Valerio, Chiara Tagliaferri, Patrizia Renzi; con Teresa Ciabatti, di cui Michela ammirava la spudoratezza, e che ha scritto oggi un ricordo spudorato e meraviglioso sul Corriere; con gli amici scrittori Mario Desiati, Marcello Fois, Roberto Saviano; con i propri figli d’anima e la sua famiglia queer; soprattutto con l’enorme comunità di chi leggeva i suoi post sui social. Così ha sfidato radicalmente il potere. Che è gerarchico, verticale nel controllo e ha paura dei rapporti orizzontali, liberi e rizomatici.
La potenza della disintermediazione
Perché Michela Murgia è stata tra i commentatori politici, i social media influencer e le scrittrici letterarie più credibili e amate d'Italia. Il suo nome, il suo volto ridente e la sua bellissima voce sono familiari a qualsiasi italiano interessato ai libri, al femminismo e all'analisi culturale della politica nazionale. Murgia è coautrice con Chiara Tagliaferri e narratrice del podcast più scaricato in Italia, Morgana, e il suo tempestivo trattato antifascista Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, è del 2018, è stato immediatamente tradotto in tutta Europa e oltre, inclusa un'edizione americana per Penguin Random House.
Perché Murgia aveva capito meglio di tutti la potenza della disintermediazione nella comunicazione contemporanea e, senza nessun populismo, comunicava direttamente con tutti i linguaggi a disposizione: dai libri ai podcast ai post dei social. Con numeri che nessun giornale oggi le avrebbe garantito. E lo aveva capito da subito. Il suo primo libro Il mondo deve sapere che è la versione narrativa di un blog, è il primo romanzo italiano sul mondo del precariato. Nel 2006. Un libro comico su un lavoro tragico. La scrittura è stata per Murgia un mezzo per cercare strumenti di cambiamento della realtà nei punti in cui la realtà che abitava era per lei scomoda. «E ho iniziato a scrivere aprendo un blog. Io che non avevo mai avuto neanche un diario segreto di quelli che si tengono nel cassetto.»
Ora dobbiamo continuare a leggerla. Accabadora, premio Campiello 2010, oltre 300mila copie vendute, è un grande romanzo. Premonitore e coerente come tutta la sua opera. È la storia di Maria e della vecchia sarta Bonaria Urrai. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. «Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fili'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia». Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.
Condivido un ultimo ricordo. Una mattina a Milano giravamo con il regista Jacopo Milesi i video per il lancio di Tre ciotole, Michela per prepararsi alla ripresa si è ravviato il ciuffo che le è rimasto tra le mani. Sorridendo ci ha chiesto: conoscete una parrucchiera? E si è fatta rasare a zero i capelli. Trasformando l’ultima cena in una festa. «Stamattina la sardità dei miei capelli ha ceduto ed è caduto il primo ciuffo. Con l’ultimo barlume del taglio abbiamo girato i lanci social di Tre ciotole. Poi abbiamo fatto questo. Sembra una festa, lo so, ma con gli amici, mio figlio e il sole di fuori, che cos’altro poteva essere?»
L’ultimo bellissimo racconto di Tre ciotole, un romanzo corale fatto da una rete di personaggi che hanno al massimo un grado di separazione e vivono uno stato di crisi ognuno arredando a modo suo il proprio inferno, si intitola Cambio di stagione. Attraverso una sorta di funerale degli abiti di una defunta, Michela ha messo in scena letteraria il proprio. Unica anche in questo. Amava la moda. E ne capiva il linguaggio.
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