Nella sua casa sulle colline che circondano Sofia sta per preparare la pasta ripiena: al posto della ricotta userà il syrene, formaggio di capra locale. Al posto dell’origano userà mashterka, un profumato timo balcanico. Quando non trova ingredienti italiani qui nei dintorni, li sostituisce con quelli bulgari dal sapore equivalente o più definito. Fa sempre così Michele Bellotto.

È trevigiano, è chef, ha 36 anni e i baffi a bicicletta. Non lo dice subito, ma è anche il nipote dello scrittore Enzo Demattè, autore e pioniere italiano delle “biblioteche per ragazzi” (oggi, quella che c’è nella sua natale Treviso, ne porta il nome). Prima che la liturgia di farina e uova inizi, lo chef si infila il grembiule. E mentre comincia a impastare, il cuoco inizia a raccontare il suo viaggio (senza biglietto di ritorno) dall’Italia alla Bulgaria. In pochi lo fanno in quest’ordine, di solito, si fa al contrario.

Da quando è arrivato qui più di dieci anni fa il sogno della cucina per lui è stato “svobodno padane”, free fall, caduta libera. Alle spalle, fuori dalla finestra, ha la collina di Pancharevo e pure davanti, sul tavolo, ne ha una: è piccola, bianca e di farina.

Bellotto è chef e prof: insegna cucina italiana ai bulgari. La sua scuola si chiama Menù, incontra gli studenti a lezione tre volte a settimana: «Se lavori nelle cucine di un ristorante non vedi mai le facce di chi assaggia i tuoi piatti, a scuola invece, una volta terminato, mangiamo insieme quello che abbiamo preparato. È un’esperienza collettiva, sociale. È una specie di grande famiglia culinaria. A lezione vengono le nonne che vogliono cucinare per i nipoti, molte ragazze, ma anche tanti uomini, giovani e adulti».

Lo spiega mentre modella la pasta come ha modellato la sua vita quassù, tra i picchi che avvolgono la capitale bulgara. Intorno a lui, a fine cucinata, rimarrà sul tavolo solo l’essenziale. Sua moglie Aleksandra sorride seduta al tavolo (pasta preferita: quella con gorgonzola e noci). In collina ci sono venuti perché «we like vita lenta». Qui vicino c’è una foresta di alberi altissimi, la raggiungi dopo pochi passi brevi, ma di quelli che danno una direzione lunghissima alla vita ogni mattina, quando ti svegli e si irradia il verde delle foglie tra le case basse invece che grigio cemento e smog dei grattacieli che continuano a tirare su uno dopo l’altro in città.

Universo impasto

Sotto le mani dello chef appare un amalgama grosso quanto una palla da tennis che si ingrandisce fino a diventare un piccolo satellite che respira e cresce sul tavolo. Dopo venti minuti diventa un gonfio pianeta giallo. L’ingrediente più importante della pasta sembra il tempo, la giusta attesa. Bellotto comincia a stenderla: la pasta diventa lunga e sottile come un’autostrada. E di autostrade ne ha percorse avanti e indietro tante, prima di arrivare a questo tavolo dove c’è formaggio bianco, spinaci verdi, vino rosso.

Sono i tre colori della bandiera bulgara che erano dipinti sulla pinna dell’aereo che ha preso più di dieci anni fa quando è venuto qui per la prima volta. Taglia la pasta a fili che sembrano lancette di un orologio enorme che segna non ore, ma anni. Era il 2013 quando è arrivato nei Balcani per la prima volta con il servizio di volontariato europeo: «Non ho scelto io la Bulgaria, è lei che ha scelto me».

Dopo l’anno bulgaro torna a casa, si diploma all’accademia di cucina Dief a Padova, iniziano salti e capriole di gavetta, tra un ristorante e l’altro, prima in Italia, poi in Bulgaria. In uno dei ristoranti italiani di Sofia gli insegnano un motto che fa suo, dice mentre tira l’impasto: «Quando il cliente varca la soglia del locale, tutto deve essere come in Italia». «L’amore che i bulgari provano per l’Italia è immenso e la prima connessione che hanno con il nostro paese è il cibo, la pasta. Voglio insegnare questo alle persone: ricette semplici, tradizionali, regionali, autentiche». L’Italia qui si sogna a occhi – e bocca – aperti.

«Questo aiuta anche me: vedo l’Italia da cui sono voluto andarmene attraverso i loro occhi. Ma so che se fossi rimasto non avrei mai fatto questo percorso. Se sei bravo e sincero in ciò che fai, qui cresci e ti viene riconosciuto l’impegno. Dico sempre: Fuck the american dream, voi non conoscete il sogno bulgaro. In Italia sono solo l’ennesimo cuoco italiano: qui sono un cuoco che parla bulgaro mentre cucina italiano. Mi sento fortunato ad aver trovato tante persone innamorate della cucina italiana e che sia io a rappresentare tutto questo per loro. Amano da lontano l’Italia attraverso la pasta, che è la migliore ambasciatrice che abbiamo».

Less is more

I suoi alunni diventano presto scettici davanti a una ricetta non ricca di ingredienti come i loro pasti nazionali: «È quasi impossibile far capire quanto è buona pasta aglio, olio e peperoncino. Una grande battaglia è far capire che nella cucina italiana – almeno, nel mio concetto di essa – conta la qualità, non la quantità di elementi che trasformi».

Lo chef trevigiano che spiega come fare spaghetti al dente ai bulgari lo fa anche dagli schermi quando va in onda sulla tv nazionale. Una volta, solo cinque minuti prima che si accendesse la luce rossa della diretta, gli hanno detto: «Oggi cucini coi Deep Purple», forse la cosa più inaspettata della sua vita è stato infarinare con leggende rock, racconta mentre spinge lo stampo sull’impasto.

Ne viene fuori una pasta a forma di sole che poi poggia sul vassoio, corpi celesti multipli che sembrano un inno a questo piccolo universo di Pancharevo. La farcia è bulgara, omaggio all’incrocio dei suoi destini, una vita intera che finisce in portata. C’è della Bulgaria che non si può più separare dall’Italia in questa pasta, non si sa dove inizia una nazione e finisce l’altra, come la vita di Bellotto. A questo tavolo nessuno comunque vuole saperlo, soprattutto da quando lui e Aleksandra si sono sposati mesi fa.

La strada maestra per arrivare al raviolo su questo tavolo è stata lunghissima e piena di vicoli. Il risultato di tutto lo vedi dopo la cottura in pentola, dopo la tostatura delle vite vissute fin qui. Il piatto tondo come il lago dove vanno spesso a passeggiare Michele e Aleksandra sembra il biglietto per un invito a un viaggio circolare. Parti, vai oltre frontiera, poi vai a casa, poi ritorni ancora e ne trovi un’altra quassù. Per questo nel piatto non sembra esserci solo pasta, ma un cumulo di scelte coraggiose, odori di memorie d’infanzia, inevitabili contraddizioni e addii, spezie, avvicinamenti e allontanamenti da questa sua nuova patria, trasformazioni impetuose e repentine, ma inevitabili.

Pasta Annapaola

Ai suoi studenti a volte insegna anche la sua ricetta preferita al salmone affumicato e zucchini: la chiama pasta Annapaola, il nome della sua prima maestra di cucina, sua madre. «Sono sempre stato in mezzo agli ingredienti».

Come molti di quelli che scelgono una biografia di padelle e grembiuli, ha incontrato l’amore in casa. Quando capisce che per vivere (felice) deve cucinare, è alto quanto uno un paio di spaghetti in fila e due ceci. Ha solo sei anni, ma se allunga le mani accende i fornelli. «Se mia madre faceva tardi a scuola, le pentole le mettevo su io. Sbollentavo e riscaldavo il pranzo. Mia madre è un’insegnante, ma cucina meglio di me. Cucina come le mamme. Ricette semplici, in spazi piccolissimi dove organizzare il materiale, poco equipment».

Pasta Annapaola è un treno veloce per le papille gustative per farti tornare a casa in un attimo se sei dall’altro lato del mondo. Intanto lo chef ha finito e porge un piatto dove è comparso un sistema solare ripieno di formaggio che si scioglie come la neve fuori. Un velo di vapore sale dalle pasta, una scia di fumo che sembra dello stesso colore della nebbia che sale di sera su questa collina.

Una nuvola monocroma che odora di spezie bulgare, Italia e foresta. Il formaggio fila, il vino scende, la bottiglia si svuota, il piatto pure. Pasta, salsa, verità: tutto terminato. Gli accordi iniziali di Smoke on the Water dei Deep Purple risuonano: lo chef sta pensando a nuova ricetta.

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