La prima volta che ho scoperto che Z. quando urlava faceva cadere pure i quadri, eravamo nella mia camera. Lo avevo fatto arrabbiare io, diceva che ero criatura e ingestibile e che mi doveva raddrizzare, che mi doveva insegnare a campare. Nel mio cervello si era creata una poltiglia, mi sembrava di essermi scordata tutto quello che avevo imparato. Ogni tanto però avevo dei momenti furiosi di lucidità in cui mi ricordavo chi ero: ore d’aria dalla cortina di ferro della manipolazione
Questo racconto, tratto dal numero di gennaio del nostro mensile Finzioni, è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. #Unite #Rompiamoilsilenzio
Voglio scendere da questa macchina. Non voglio morire in queste campagne sperdute, con questo animale che mi grida addosso, non so manco dove ci troviamo. In culo al Padreterno, mi ha portata.
Voglio scendere da questa macchina perché qua ci rimango, ho esagerato stasera, esagero sempre, non ho seguito le sue istruzioni, ora la sua pazienza è finita, stasera è la volta buona che ci resto secca, come una cerva impagliata, è finita. Mi ha portata in braccio a Cristo.
Voglio andare da mia madre che non sa nemmeno con chi mi sono messa, voglio andare da mia madre che è lontana chilometri e non può fare niente. In questa macchina non esistono santi in paradiso che mi possono salvare, non esistono chiese e croci, non esiste nemmeno mia madre, ora mia madre, per quanto mi riguarda, potrebbe essere in fondo al mare con le labbra livide e blu, io non la vedrei, perché sono rinchiusa in questa calotta incandescente che sfreccia come una saetta.
C’è solo questa macchina e c’è lui che urla con una voce di tamburo che sale dal centro della terra, il suo ringhio sfiatato si scioglie in quel «TESTA DI CAZZO!» che mi si posa sulla testa come una coroncina di piombo.
Lo giuro sugli occhi ciechi di Santa Lucia, se scendo viva da questa macchina faccio il fioretto che non lo tocco mai più, lo giuro, lui mi fa anche vomitare da mesi e non capisco perché ci sono ritornata, ma quanto corre, voglio solo scendere, corre come un esaurito e non capisco dove ci troviamo, il buio fuori è un drappo funebre e c’è una mezza luna tremolante, sembra la lacrima di una bambola.
Sento che mi sto facendo la pipì addosso, ho le mutande bagnate, spero che non si accorga che gli sto pisciando il sedile. Quando ho paura ho di nuovo tre anni e la bocca scugnata, sento la paura come una cosa fredda sulla nuca. Mamma vienimi a prendere in qualche modo, anche se ti ho detto che sono a casa con una mia amica, sono stata bugiarda mamma, sono una grandissima bugiarda e ti riempio di palle da quando sto con lui, però vienimi a prendere lo stesso, trova un modo e fammi uscire da questa macchina, compari di fronte a me e fammi piangere nei tuoi capelli.
È il 2020, lui si chiama Z. e quando l’ho visto la prima volta non mi è piaciuto: ho subito pensato che non era il mio tipo. Più di tutto, era la sua voce a non convincermi, sembrava un abbaiare, un guaire di lupo che poi si scioglieva in un rapidissimo falsetto, come da opera buffa.
Z. aveva gli occhi nerissimi, sembrava fossero truccati, istoriati di mascara, occhi furbissimi da lince delle campagne meridionali, da principe arabo in cattività, quegli occhi moreschi facevano a cazzotti con la volgarità da rana del suo sorriso, un tratto sottile e da anfibio, che prendeva vita ogni volta che c’erano trame e inciuci di ogni tipo.
Era molto gentile con me, mi portava l’Estathé al limone quando uscivo da lezione, cucinava per me, mi veniva a prendere alla stazione e mi riaccompagnava a casa, leggeva le mie cose, almeno all’inizio.
La prima volta
La prima volta che ho scoperto che Z. quando urlava faceva cadere pure i quadri, eravamo nella mia camera. La mia coinquilina è entrata per controllare, e io mi sono vergognata come una mariuola: avrei preferito ci avesse trovati nudi, aggrovigliati come vipere gemelle, avrei preferito mi avesse vista con le gambe sulla sua schiena.
«Tutto bene?» mi ha chiesto la coinquilina. «Vattene, non è niente», le ho detto anche un po’ sfastiriata, perché quando io e Z. iniziavamo quei litigi, eravamo circondati da un male alchemico e totalitario, una melassa malmostosa che nessuno poteva sfiorare, una pellicola di nylon appiccicoso che ci spalmava contro il vetro del nostro stesso schifo.
Io e Z. avevamo creato una dinamica che, se interrotta, mi risuonava dentro come uno strappo, e nessuno si doveva mettere in mezzo.
Lo avevo fatto arrabbiare io, diceva che ero criatura e ingestibile e che mi doveva raddrizzare, che mi doveva insegnare a campare e che sarebbe riuscito, finalmente, a educarmi: «Io mica sono come quei senza palle dei tuoi ex? Mica sono come il tuo Antonio? Poi alla fine mi ringrazierai, io lo faccio per il tuo bene» e, alla fine, con ancora i suoi latrati che fischiavano nelle orecchie, gli dovevo chiedere scusa e lui mi concedeva il suo perdono dopo avermi affamata, ogni tanto mi gettava dietro un tozzo di pane in una pozzanghera. «No, io sotto casa il bacio non te lo do stasera, non te lo meriti, ti sei comportata male», e se ne andava via soddisfatto, compiaciuto, con la tempra stanca ma necessaria del maestro che deve educare, del pedagogo che deve insegnare col metodo sempiterno del bastone e della carota.
Gaslighting
Nel mio cervello si era creata una poltiglia. Mi sembrava di essermi scordata tutto quello che avevo imparato dall’apprendimento dell’alfabeto in poi, era come se nella mia testa ci fosse stato un minestrone annacquato in cui galleggiavano la mia intelligenza, i miei talenti, le mie conoscenze, e galleggiavano come corpi morti, coleotteri secchi che non servivano più a niente, non servivano alla Monica che conoscevo e di cui non avevo più memoria.
Senza rendermene conto, mi ero ritrovata a vivere uno stato larvale, in cui aspettavo punizioni e le scontavo senza sapere perché, in cui non riuscivo a capire cosa mi era stato dato e cosa mi era stato tolto, in cui ero complice e in cui gli porgevo la corda che mi avrebbe strozzata, a volte mi vedevo con i suoi occhi arabeschi e moreschi e mi vedevo vacca nel recinto, grande animale marchiato, giovenca che deve stare al suo posto e aspettare il cenno per poter muovere gli zoccoli.
Una volta, durante una lezione, a cui ero arrivata senza aver dormito, sono scappata e mi sono chiusa nel cesso a piangere come se mi avessero dato un cazzotto in pancia, il dolore che sentivo era fisico e pulsante, non avevo più il controllo dei miei pensieri, ogni mia percezione mi sembrava slabbrata, spesso chiedevo conferma alle mie amiche se alcuni miei pensieri fossero giusti, perché ormai ragionavo con la logica di Z., la semantica di Z., la morale di Z., se io pensavo o credevo che l’acqua fosse trasparente, Z. mi convinceva, in un modo assolutamente irrazionale, aleatorio e sfasato che l’acqua in realtà era viola, e io dovevo chiedergli scusa per aver pensato il contrario, e io ormai avevo il cervello impanato e fritto, e non capivo quando mi dicevano «Ma che ti prende? Ma sei sicura di essere tu? Tu non ti comporteresti così».
Un po’ di tempo dopo, avrei scoperto anche l’esistenza di una cosa chiamata gaslighting, e avrei scoperto anche il modo manualistico e impeccabile con cui Z. l’aveva praticato. E mi mettevo scuorno, mi vergognavo, infatti a un certo punto ho pure smesso di parlarne con la gente e ho iniziato a tenermi gli stracci zozzosi per me. Cosa mi prendeva? Non lo so, non l’ho mai saputo, è una contraddizione insanabile, un nodo gordiano, un rasoio che non posso affrontare con gli strumenti della logica o del ragionamento, ne uscirei con le braccia screziate e maculate di coccinelle rosse.
Senza memoria
Qualche anno dopo, avrei letto La scuola cattolica di Edoardo Albinati e mi sarei segnata questa frase arroventata: «L’abuso solamente è memorabile». Tutto in quel periodo risulta sbriciolato via, cancellato da un colpo di spugna, tutto tranne l’abuso che all’epoca non riuscivo a identificare come abuso, ricordo soltanto i colpi di coda, i guizzi delle punizioni, le urla, le macchine che sfrecciano, le punizioni, le punizioni, le punizioni. I pomeriggi stesa sul letto, in uno stato da ameba, ad aspettare un suo cenno perché una delle sue punizioni più logoranti era il silenzio, la sparizione.
Ogni tanto, i miei zoccoli scalpitavano, avevo dei momenti furiosi di lucidità in cui mi ricordavo chi ero, delle ore d’aria dalla cortina di ferro della manipolazione: coincidevano con i rari momenti in cui parlavo con le mie sorelle o con mia mamma o con i miei amici, di solito non ne parlavo con nessuno, momenti epifanici in cui tornavo quella che ero, mi sembrava di riprendere il pieno possesso delle mie facoltà mentali, della mia cazzimma.
Quando ho provato a lasciarlo la prima volta, mi ha urlato addosso come un intossicato, avevo paura potesse farmi qualcosa, grande e grosso com’era. Lo guardavo e mi faceva ribrezzo, alla fine gli ho dovuto chiedere scusa, diceva anche che per colpa mia stava facendo un incidente in bicicletta e urlava «Sei contenta? Sei contenta?».
Il sangue doppio
Nella mia vita scorreva un sangue doppio, che nessuno poteva capire: cazzimmosa e determinata con tutti, ambiziosa nelle mie cose, una larva totale con lui.
Se Z. fosse stato un numero della Smorfia, sarebbe stato ‘onna pereta fore ‘o balcone, o la ‘nciucessa. Queste figure di pettegole eterne della tombola napoletana sono cristallizzate in un archetipo di sale, un archetipo cabalistico e femminile, ma la verità è che la più grande pettegola che ho conosciuto non è stata una femmina, ma è stato lui. Intrigante, malizioso, sgusciante e con la pelle traslucida, lui era sempre la vittima, il poverello, quello di cui non s’era accorto ancora nessuno, nel mondo dei libri, delle serie tv, del cinema o di tutto ciò che gli balenava in mente.
«Voglio lavorare con le parole», diceva, «Voglio scrivere, ma non sono come te che prendo il pc, mi metto e scrivo. Io sto sul letto, guardo i social e non faccio niente, sono un fallito», in una nenia puzzolente, una litania che me lo faceva vedere scarafaggio.
Non ho mai avuto un odiatore più accanito, invidioso e maleodorante di lui. Di me, Z. odiava l’ambizione, l’autodeterminazione, e anche se voleva spogliarmi di tutto, sapeva bene che non sarebbe riuscito a togliermi il vizio e il tic della scrittura, sapeva che se anche di me fossero rimaste soltanto le ossa, la scrittura non se ne sarebbe mai andata, ed era questa la cosa che lo faceva uscire pazzo.
Quando non era pedagogo, educatore e moralizzatore onnipotente, Z. era lagnoso e fetido come una fogna, friggeva di un’invidia schifosa: ogni volta che raggiungevo un traguardo, lui si allontanava e lo minimizzava, facendomelo pesare e facendomelo pagare caro.
Di contro, festeggiava, anche animatamente e festosamente, traguardi di amici e amiche, facendo grandi celebrazioni e rendendosi anima della festa, mattatore, guaglione solare: quando si parlava di quello che raggiungevo io calava il tabù, un silenzio di malafede, un allontanamento omertoso e malavitoso.
Quando non potevo stare nel recinto e mi dispiegavo verso il mondo, andavo punita e arripigliata per le orecchie, dovevo calare la cresta.
Sempre ne La Scuola Cattolica, Albinati narra e sviscera la semantica della cultura patriarcale, che nasce dai concetti di saccheggio e vendetta. Saccheggio e vendetta.
In tutti i casi, la donna non è soggettività, libertà, ma è mero asset: l’asset è un bene dell’uomo, qualcosa che forma il suo corredo, alla stregua di una macchina, di un motorino, di un cellulare, qualcosa di tollerato a fatica, un quid che serve ad affermare la propria supremazia agli occhi degli altri uomini. Non si può sopportare che la donna abbia progettualità, talenti e anche volontà di lasciarli addirittura, questo causa disprezzo e violenza in chi vede, nel femminile, la Medusa, la Sfinge, la cerva fatata da abbattere se si rifiuta di essere corredo.
Ed è qui che si manifesta la banalità e la stupidità più becera della cultura patriarcale: l’uomo si sente davvero uomo se riesce ad aggredire, soggiogare e domare la donna-asset che si rifiuta di essere asset, ma anche se riesce, nella sua concezione violenta, a “educarla” e proteggerla (possibilmente da uomini come lui).
Lingue di fuoco
Z. era un bravo guaglione, lo dicevano tutti. Se penso all’ultima fase del nostro rapporto, ho in mente una girandola di fotogrammi che scottano come lingue di fuoco.
Lui che, durante una discussione, fa una furia e mi molla da sola in mezzo alla folla e io che gli corro dietro e lo cerco (lui, in un angolo, mi guardava dimenarmi, si è goduto lo spettacolo di me che lo cercavo: io pagliaccia, io burattino, io pupazzetto, io marionetta, poi è tornato come se niente fosse e ha detto «Andiamo al cinema». Abbiamo guardato In the mood for love, e io non ho visto nemmeno un minuto del film, c’era qualcosa che mi faceva battere i denti dal terrore, battevo i denti come quando si ha freddo e non mi era mai capitato in vita mia, manco sulla neve, e durante il film ho inviato a un’associazione della città la mia prima richiesta d’aiuto. Mi hanno risposto, io poi non ci sono andata); lui che al mare mi urla di cambiarmi, non dovevo mettere il costume da bagno perché era «a brasiliana»: dovevo mettere la culotte, altrimenti i suoi amici mi avrebbero vista col culo da fuori e chissà cosa avrebbero pensato, «qui c’è gente che mi conosce».
Non so come ho fatto, ma a un certo punto me ne sono liberata, e ho dovuto lottare anche contro le scorie che avevo in me, contro il letame introiettato che non mi faceva mettere a fuoco i tratti somatici della violenza. L’ho bloccato ovunque, sono scappata, ed è iniziato il calvario di telefonate notturne e anonime, messaggi alle mie amiche, alle mie sorelle, lettere lunghissime piazzate sul pianerottolo di casa, le minacce, biglietti, gli attacchi di panico sul tram, la paura di trovarmelo dietro.
Non sono stata migliore di Giulia o di tutte le donne che non sono più con noi sono stata solo più fortunata, se sono qui a battere tasti all’impazzata nel buio di questa stanza, se sono qui a scrivere parole che mi fanno vergognare, ma è proprio la vergogna che mi fa capire che devo andare avanti. Quando parlo di questa storia violenta, non so mai come farlo, ho paura di vestirmi delle squame della vittima: raramente scrivo in prima persona, per me la letteratura è una festa di travestimenti, maschere e finzioni.
La mia postura narrativa, fin da quando ero piccola, mi porta a camuffare, imbrogliare e incastonarmi narrativamente in altre entità ectoplasmatiche che chiamo personaggi, a sciogliere il filtro delle mie ossessioni usando l’invenzione e l’arte della trasfigurazione, e solo in quel modo bugiardo, mendace e infedele mi sembra di dire la verità quella piena, spudorata e rivelata. Stavolta, pur essendomi attenuta alla verità fattuale, ho l’impressione di aver omesso qualcosa, ma credo sia ancora l’impronta della voce di Z., che da qualche parte gira come un carillon scarico e mi fa credere che ho sbagliato, anche a raccontare di lui.
Ideato
Ma non è di Z. che si tratta, o almeno non solo di lui, Z. è un simulacro che si eleva e si fa imago di una cultura che non è anomalia o volto occasionale del mostro, perché Z. è la facies di qualcosa che va non solo nominato, ma risemantizzato nel modo giusto, e se voglio raccontare questa storia, ho bisogno di avere dalla mia parte un armamentario di parole adatte.
Sempre Albinati, ne La scuola cattolica parla di violenza e cultura dello stupro. Lo stupro è contiguo e intrecciato ad altri atti di violenza, e gli stupri non sono scoppi o micce esplose nel cuore della notte in un impeto di inventio.
«Ben lungi dall’essere un crimine che si commette per l’urgenza di incontrollabili istinti, lo stupro viene ideato a tavolino, scegliendo il bersaglio e facendo tutti i passi necessari per mettersi nei suoi confronti in una posizione di vantaggio tale che essa non potrà reagire e opporsi senza rischiare la vita». Stupro e saccheggio vanno sempre a braccetto, e la sorgente di tutto ciò è il potere.
In macchina
Sono ancora su questa macchina che sfreccia come una saetta. «Ti puoi fermare un attimo, per piacere», gli dico.
Z. accelera e mi chiama vasciajola, dice che sono volgare, che sono sboccata, che parlo troppo quando sono in gruppo perché voglio fare colpo e attirare l’attenzione, che non ci devo parlare con gli amici suoi,« gli hai chiesto l’accendino perché te lo volevi chiavare a quello, ho visto come lo guardavi, te lo sei spolpato», «tornatene nei vasci napoletani», «tornatene da quelle come te», e io sto a chiedermi che faccia abbiano quelle come me, e inizio a pensare ai vasci napoletani, che in bocca a lui diventano caverne puzzolenti, antri ammuffiti dove il sole non ci entra, i bassi napoletani che mi fanno pensare alla mia amata Anna Maria Ortese, i miei vasci così lontani, nelle sue labbra diventano ossari, musei di teschi, cimiteri delle Fontanelle.
Anche stavolta si calma, torniamo a casa, lui va a letto quasi subito. «Vieni pure tu a dormire?». Io sono sul balcone, finalmente ho un attimo per sentire la voce di mia madre.
Mamma mi chiede come sto e le dico che sono a casa mia e che ho appena finito di cenare. Mi chiede perché ho la voce affannata e strana, le dico che mi è tornata l’asma.
«Prendi un Bentelan», dice lei, come quando da piccola mi scioglieva le compresse in un cucchiaino, la mia mamma meravigliosa e impotente che ho riempito di bugie da quando è iniziata questa storia.
«Grazie mamma», e penso a quanto si possa amare una persona anche se non può proteggerti, “Grazie mamma” le ripeto, alzando sempre di più la voce, per non farle sentire che c’è Z. nell’altra stanza che mi sta ancora chiamando.
Questo racconto è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.
#Unite #Rompiamoilsilenzio
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