- «Io l’ho sempre odiata», mi ha detto al telefono un tizio che conosco a lutto ancora fresco questo basta a indicare l’unicità di Lina Wertmüller: da sempre e per sempre è stata condannata a quella che oggi chiameremmo polarizzazione.
- Il suo era un cinema d’amore e d’anarchia – anche in quel caso: o lo ami o lo odi – proprio perché anarchico era lo spirito d’autrice anti(neo)realista fin dal principio.
- Da Pasqualino Settebellezze a Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, ha girato cose splendide e, sempre come si dice oggi, iconiche, ma nel senso non abusato della parola.
«Io l’ho sempre odiata», mi ha detto al telefono un tizio che conosco a lutto ancora fresco, e potremmo anche chiudere qui, ché questo basta ad indicare l’unicità di Lina Wertmüller: nemmeno a novantatré anni era riuscita a diventare una venerata maestra, da sempre e per sempre è stata condannata a quella che oggi chiameremmo polarizzazione.
O forse quello è stato il suo massimo privilegio, la sua vera libertà: fare un po’ quel cazzo che voleva proprio in virtù del fatto che non sarebbe piaciuto a tanti, e andava meglio così. Anche per questo lei che, tutti lo sanno, aveva iniziato come aiuto di Fellini (per La dolce vita e 8½, mica cotiche) era riuscita a diventare quel che Federico vedeva come traguardo ultimo e finale: un aggettivo. “Wertmülleriano” è ancora sufficiente a indicare un modo e un mondo, sempre esagerato, chiassoso, urlato – dicono che urlano nei film (ora anche nelle serie) di Muccino, ma quanto hanno urlato nel cinema di Lina?
Dagli inizi all’Oscar
I titoli dei suoi film lunghi come il suo nome – così l’anagrafe: Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich – erano un birignao, e pure lì dentro ci sono cascati tutti, ci siamo cascati tutti. Esattamente come negli occhiali bianchi diventati divisa e vezzo, nel capello cortissimo alla maschietta (oggi si potrà ancora dire?), nell’attitudine da eterno Gian Burrasca che ancora si portava appresso, fino all’Oscar alla carriera (era il 2019), fin dentro quella meravigliosa istantanea hollywoodiana accanto al suo Giancarlo Giannini e a Leonardo DiCaprio, in cui conservava quel menefreghismo insieme svizzero (le origini) e romano (la casa, lo spirito), quella gratitudine e insieme quel disprezzo per le istituzioni classicamente intese.
Il suo era un cinema d’amore e d’anarchia – anche in quel caso: o lo ami o lo odi – proprio perché anarchico era lo spirito d’autrice anti(neo)realista fin dal principio. I basilischi, l’esordio dietro la macchina da presa del 1963, passava agli occhi dei cinéphile del tempo come documento sui giovani del sud negli anni del Boom, in realtà era già una scatenatissima farsa grottesca (e per nulla datata: rivedere per credere).
Lina Wertmüller è stata donna dei record, come s’è scritto e detto in queste ore luttuosissime e affettuosissime: la prima regista femmina candidata all’Oscar (per Pasqualino Settebellezze, 1975, che benissimo tratteggia ancora adesso lo spirito dell’arcitaliano); e fa sorridere, in epoca MeToo, che quel primato sia toccato proprio a lei che non ha mai fatto storie di gender, se mai di genere in senso strettamente filmico.
Un genere che si era inventata da sé, in cui raccontava sì tante storie di donne (la divina Mariangela, la diva Sophia), ma che erano al contempo sia vittime sia fortissime, furbe e sceme, usate e utilizzatrici dei maschi (spesso i veri fessi), magnifiche e perfide, borghesi e proletarie, madonne e puttane, bellissime e racchie. Wertmüller non faceva il cinema “delle donne”: faceva il suo, e basta.
Ha girato cose splendide e, sempre come si dice oggi, iconiche, ma nel senso non abusato della parola: certamente Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, una stilizzazione ancora precisissima dell’universale guerra dei sessi, ma soprattutto un film sul bipolarismo impossibile di questo paese; ma anche, nei “suoi” anni Settanta, cose più brutte che però sapevano diventare sublimi, perché era più forte, in loro, il senso del tempo che sapevano cogliere.
Immune dal pregiudizio
Penso a La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978), col solito comunistone (il solito Giannini) che s’innamora di una femminista americana (Candice Bergen), ma la passione tradisce gli ideali, o viceversa. Quasi un Come eravamo con la nostra approssimazione e rozzezza, pasticciatissimo ma insieme capace di sentire e trasferire quel che accadeva – che accade ancora, vedi il MeToo di poc’anzi.
Quand’ero ragazzino, vedevo i suoi film dell’epoca – gli anni Novanta, per fortuna dimenticati, di Io speriamo che me la cavo, Ninfa plebea, Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, Ferdinando e Carolina – e mi chiedevo: come fa ad essere considerata una Grande Autrice, questa qui? E anch’io un po’ la odiavo, anche se ne intuivo il segno, il guizzo, la mano che faceva, nel bene e nel male, quel che credeva.
E poi – i ragazzini di una volta erano assai meno vittima della contemporaneità, che bei tempi – pian piano scoprivo il resto, Mimì metallurgico e Film d’amore e d’anarchia, e quel cinema mi piaceva, ma di un amore disturbante e disturbato, il che probabilmente era nelle intenzioni della regista, forse già lo aveva in mente come suo lascito alle future generazioni. Ho rivisto certe sue cose durante gli infiniti lockdown passati e ho provato lo stesso misto di ammirazione e fastidio, sorpresa e prurito, bellezza e zozzeria.
Ma sempre rispetto per la voce, per la testa velocissima, per l’estetica messa costantemente davanti all’etica: nel cinema politicizzato e moralista del tempo (in fondo anche di oggi), quella è stata la vera unicità, la vera libertà. Ecco, Wertmüller era immune da qualsivoglia forma di pregiudizio. Sapeva (voleva) raccontare fatti e personaggi anche osceni, in tutti i sensi, e renderli, se non amabili, quantomeno umani. Nel suo cinema fatto solo di eccessi, c’erano molte più sfumature che nelle storie di tanti colleghi.
Che cos’è stata, in fondo, Lina Wertmüller? La venerata maestra abbiamo detto di no, la primatista dei femminismi da dibattito nemmeno, l’attivista figuriamoci. Forse un po’ una maga e un po’ una ciarlatana, ecco cos’è stata, ma detto in senso affettuoso, bambinesco. Una zingara che incantava con le sue parole, e i suoi colori saturi, e le parabole umane che erano fintissime e verissime, e quelle figurine sempre sbagliate e per questo così giuste. Una cinematografara – non credo la definizione le avrebbe dato noia, anzi – amatissima e odiatissima. Ma anche quelli che, fino alla fine, l’hanno detestata in fondo le hanno voluto un poco di bene.
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