- Stavo scrivendo questo pezzo su Bobi Bazlen quando è arrivata la notizia della morte di Roberto Calasso. Proprio ieri sono usciti in contemporanea due suoi libri autobiografici Bobi e Memè Scianca nella sua Adelphi. Un’uscita che sa di profezia.
- Ma i sincronismi junghiani non finiscono qui. Perché era appena arrivata anche la notizia del premio Campiello alla carriera a Daniele Del Giudice, il cui primo magnifico romanzo, Lo stadio di Wimbledon, racconta di Bobi Bazlen, lo stesso protagonista del libro di Calasso.
- Così avevo pensato di raccontarli assieme. Sincronie editoriali un po’ misteriose che risuonano con congruenza tra vite e libri. Per cui ho deciso di non riscrivere il pezzo.
Stavo scrivendo questo pezzo su Bobi Bazlen quando è arrivata la notizia della morte di Roberto Calasso. «Roberto Calasso ha segnato profondamente la cultura italiana del Novecento e del nuovo secolo, come editore e come scrittore. Ha guidato per cinquant’anni la casa editrice Adelphi, pubblicando nel nostro paese libri che sono pilastri della civiltà europea (e non solo) e ha contribuito in maniera fondamentale a promuovere la cultura italiana all’estero. In questo giorno di dolore, l’Associazione Italiana Editori si stringe alla famiglia e ai colleghi della sua casa editrice», ha dichiarato ora il presidente di Aie Ricardo Franco Levi.
Proprio oggi, 29 luglio, sono usciti in contemporanea due suoi libri autobiografici Bobi e Memè Scianca nella sua Adelphi. Un’uscita che sa di profezia. Ma i sincronismi junghiani non finiscono qui. Perché era appena arrivata anche la notizia del premio Campiello alla carriera a Daniele Del Giudice, il cui primo magnifico romanzo, Lo stadio di Wimbledon, racconta di Bobi Bazlen, lo stesso protagonista del libro di Calasso. Così avevo pensato di raccontarli assieme. Sincronie editoriali un po’ misteriose che risuonano con congruenza tra vite e libri. Per cui ho deciso di non riscrivere il pezzo, perché mi sembra un buon modo di ricordare chi ha dedicato ai libri la propria vita. Di Calasso continueremo a parlare.
Le parole di Del Giudice
Daniele Del Giudice è uno dei più importanti scrittori italiani, ha 72 anni e, da molto tempo, è rinchiuso nella sua malattia. Arriva la notizia che il premio Campiello alla carriera gli sarà assegnato a Venezia il 4 settembre.
«È strano parlare di Del Giudice. Lui c’è ma è come se non ci fosse» ha postato lo scrittore Paolo Di Paolo su Facebook. La malattia che da più di un decennio lo tiene silenzioso, che gli ha tolto le parole e la memoria, costringe a cercarlo nei libri scritti, nei luoghi, nelle parole degli amici.
Del Giudice aveva trent’anni quando esce il suo primo romanzo nel 1983, Lo stadio di Wimbledon da Einaudi. È un libro che racconta l'inquieta ricerca di un giovane intorno alla vita di Bobi Bazlen. Bazlen era un eccentrico e misterioso intellettuale triestino, morto nel 1965, amico e scopritore e allenatore di talenti, che mette in relazione tra di loro: da Svevo a Saba a Montale. Indifferente al fascino della visibilità, al punto da impegnarsi a non lasciare traccia. La quarta di copertina è scritta da Italo Calvino secondo cui Lo stadio di Wimbledon rivela una voce nuova del racconto secondo un «nuovo sistema di coordinate», destinata a diventare, già nel corso degli anni Ottanta, quella di un maestro. Dell’esattezza. Della precisione. Del volo. Della fisica. Parole che legano i due: Calvino e Del Giudice.
Del Giudice narra con ritmo lento e avvolgente. Incontra le persone che conobbero Bazlen, reticenti o evasivi custodi di un mistero. Di lui rimane soltanto un’invincibile fascinazione e nessun libro. Arrivare al centro dell’esistenza di quell’uomo sfuggente, che preferì la vita alla letteratura, vorrà dire aver scoperto una rinata possibilità di guardare e raccontare il mondo, partire dalla rinuncia al libro per giungere a un romanzo, quello che il lettore ha ora tra le mani, toccando il nodo di una realtà fluttuante, fatta di sospensioni e di accelerazioni, di interrogazioni che provocano altre interrogazioni.
Il secondo romanzo di Del Giudice Atlante occidentale, uscito da Einaudi nella metà degli anni Ottanta, si misura con le scoperte della fisica: è il romanzo dell’incontro tra due esploratori: lo scrittore che scandaglia gli angoli più intimi e nascosti dell’animo umano e lo scienziato che indaga le componenti più minute della materia. Mondi apparentemente distanti che nascondono insospettabili analogie.
Calasso, il miglior allievo di Bobi Bazlen
Bobi Bazlen, geniale e inclassificabile, è il mito, l’icona diciamo oggi, di tutti quelli che fanno il mio mestiere. Gli editor. Cosa fa un editor? Sceglie i libri prima. Che lo diventino. Senza note. Senza canone. Senza filtri. Cerca di capire e ragionare senza rete. Si fa un’idea propria. Di questa interpretazione Bazlen è stato il più bravo esecutore e ha inventato criteri di selezione come “la primavoltità”, cioè la voce nuova e originale di un libro, quella che Calvino ascolta e sente in Del Giudice. O come quella dei “libri unici”. Quelli che prima non c’erano. Una anche minuscola invenzione, un gesto rapido, solo per il fatto di apparire per la prima volta, acquistano un nuovo senso e la trascurabile aggiunta al mondo ne muove l’ordine.
Il migliore allievo di Bazlen è Roberto Calasso. A loro due, e anche ad altri, dobbiamo il catalogo di Adelphi. Perché «di Roberto Bazlen sarebbe arbitrario dire che cosa pensasse; resta la certezza che la sua presenza costringeva altri a pensare» aveva scritto Calasso introducendo gli Scritti “mai scritti” di Bazlen raccolti da Adelphi nel 1984. Bazlen è un tizio che stava tutto il giorno a letto: a leggere, soprattutto, e a scrivere note e appunti. Bevendo caffè. Il mestiere più bello del mondo. Come quello di Paperino collaudatore di materassi. Gli piaceva bere. E gli piacevano le donne.
Ora arriva un nuovo piccolo libro di Roberto Calasso: Bobi, Adelphi. Meno di cento pagine di un diario in cui Calasso racconta Bazlen per raccontare sé stesso. La sua vita tra i libri e la nascita di Adelphi. Uscito nel cuore dell’estate, il giorno della sua morte, assieme a un altro diario, Memè Scianca, in cui Calasso racconta ai figli, con la sua prosa esatta e musicale, i primi tredici anni della sua vita vissuta a Firenze.
Calasso crea una proustiana analessi editoriale, perché i due libri, usciti assieme il 29 luglio, sono cronologicamente invertiti rispetto alla sequenza degli eventi. Prima, numero 767 della Piccola Biblioteca Adelphi, Bobi, che racconta gli anni romani e le ragioni che precedono la nascita di Adelphi, e poi, col 768, Memé Scianca, sugli anni dell’infanzia fiorentina. «Bazlen – scrive Calasso – attraversò la prima parte del Novecento come un profilo di luce imprendibile». Bazlen è stato un uomo geniale. La cultura italiana gli deve moltissimo, senza che abbia mai pubblicato, almeno da vivo, un solo libro o scritto per giornali e riviste, se non in modo irregolare e casuale.
Cambiare l’editoria
Per Bazlen, la scuola italiana, tutta teorica, impostata sull’idealismo crociano, fu un’esperienza pessima. Si iscrisse poi a Economia e commercio senza mai laurearsi. Bazlen era nomade, disinibito, informale, dissipatore, inesperto, maldestro, veggente, ondivago, enigmatico, uno che voleva essere sempre libero, senza alcun punto fermo: «Non un matrimonio, non un figlio, non un contratto di lavoro stabile, non una casa di proprietà», come ricorda Cristina Battocletti nel libro dedicato a lui, Bobi Bazlen. Romanzo di una vita, La Nave di Teseo, romanzo delle sue vicende, delle amicizie, degli amori, della rete di relazioni che ha tessuto intorno a sé. Ha lasciato pochi articoli, neanche un libro, ma tanti amici. E soprattutto una casa editrice: l’Adelphi.
Ecco come lo ritrae Aldo Grasso per il Dizionario Treccani. A Bazlen Grasso ha dedicato nel 1983 anche un biopic per la Rai che sarebbe bello poter vedere.
«Sono molti coloro che ebbero il Bazlen come infaticabile mentore e fra questi alcuni nomi che compongono la storia letteraria italiana. “Eminenza grigia” della letteratura del Novecento, hanno detto di lui; e poi “regista invisibile”, “protagonista nell'ombra”, “suggeritore eccentrico”, “mistico dell'anonimato” e altre simili formule che denunciano la difficoltà di definire una presenza inquieta e inquietante, un elemento per alcuni di disturbo inevitabile e per altri estremamente rallegrante, profondamente influente. Il Bazlen ebbe il merito, oltre che di stilare splendidi, quanto a lungo congelati, cataloghi editoriali, di additare a celebri letterati del momento i libri giusti o il nome di scrittori passati inosservati. Certe immagini femminili trapassarono dalle conversazioni fra il Bazlen e Montale alle poesie delle Occasioni. Promotore della conoscenza in Italia della psicoanalisi – in particolare, come si è già accennato, suggerendo fra i primi la pubblicazione dei testi di Freud: L'interpretazione dei sogni (1949), e Jung: Psicologia e alchimia (1949), Psicologia e educazione (1952) e della cultura orientale cui era, in prima persona, particolarmente interessato, scopritore di grandi autori italiani e stranieri (Svevo, Musil, Altenberg, Brock, Gombrowicz, Groddeck, Döblin, Heinrich Mann, A. Zweig, Dos Passos, e altri), come nota Montale (1965), il Bazlen consigliava “i libri che egli amava”, i quali “non erano i grandi libri, ma quelli che egli poteva rifare e integrare nel suo pensiero: i libri d'eccezione, clandestini o quasi. Ma faceva eccezione per un grande: il suo Strindberg».
Senza Bobi Bazlen non avremmo diverse poesie di Eugenio Montale; la scoperta di Italo Svevo avrebbe tardato, o forse non ci sarebbe mai stata. Niente I Ching, il libro dei mutamenti, né le opere di Jung o L’uomo senza qualità di Musil, che suggerì all’Einaudi, dove fu accolto, seppure con grande diffidenza.
L’eterno studente triestino lavorò brevemente all’Ufficio propaganda e pubblicità dell’Olivetti, prediletto da Adriano, che ne aveva fatto una sorta di consulente astrologico, passione che coinvolse Bobi nel corso di tutta la vita e che sembra guidare le sue scelte. Bazlen sembra un perfetto personaggio letterario. Una carica così forte, qual era questa sua volontà di esprimersi attraverso i libri, metteva certamente in difficoltà gli editori ai quali si avvicinava: Bompiani, Astrolabio (con cui tentò la prima pubblicazione in Italia di Freud e di Jung), Bocca, Guanda, Boringhieri e, soprattutto, Einaudi, di cui fu consulente dal 1951 all'estate 1962.
Lui che non ha scritto nessun libro in vita, è diventato il protagonista di libri: ma rimane imprendibile. La sua figura somiglia a quella di Bartleby, lo scrivano di Melville con il suo motto: «avrei preferenza di no». E ci fa comprendere la sua lezione più duratura: l’esistenza come forma pura, libera da ogni utilità o fine. L’Oriente in Occidente, senza però rinunciare al tormento creativo che la nostra cultura porta con sé. La sua è un’eredità impossibile in tempi come i nostri, ma necessaria come i libri che ci ha permesso di leggere con i suoi imprescindibili consigli editoriali.
Adelphi nacque a Milano nel 1962 su un programma preparato da Bazlen, con Luciano Foà e Roberto Olivetti. Bazlen non ne vide mai i libri, morì nel 1965 prima dell’uscita del primo, scelto da lui, il numero uno, la prima pietra: L’altra parte di Alfred Kubin. La primavoltità di un libro unico. Poi arrivò Calasso. Cambiarono la storia dei libri, dell’editoria, della cultura. In Italia e in Europa.
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