Una felice coincidenza (o un oculato lavoro di coordinamento) ha portato negli stessi mesi a Milano due retrospettive che vale la pena di vedere a distanza ravvicinata. Fino al 6 febbraio è infatti aperta al pubblico al Pirelli HangarBicocca un’imponente mostra dedicata al lavoro di Jean Tinguely (1925 – 1991) mentre è allestita al Mudec, visitabile fino al 16 febbraio, l’esposizione dei lavori di Niki de Saint Phalle (1930-2002).

I due artisti sono stati compagni di strada nella vita privata e nel corso della loro carriera artistica, al punto da lavorare anche insieme ad alcune opere oggi distrutte e divenute ormai leggendarie, come Hon (“Lei” in svedese) una scultura ambientale e abitabile lunga 28 metri a forma di corpo di donna.

Ritorno meneghino

Negli anni Sessanta furono entrambi esponenti di quel gruppo di artisti che si era radunato attorno alla figura del critico francese Pierre Restany sotto al nome di Nuoveau Réalistes la cui prima mostra si è tenuta proprio a Milano nel 1960.

Nella città meneghina poi, tra il 27 e il 29 novembre del 1970, si sono celebrati insieme il decennale e le esequie del movimento e nell’arco di questi tre giorni i due artisti sono stati protagonisti di altrettante azioni effimere e impetuose avvenute nel cuore della città, tra la Galleria Vittorio Emanuele e piazza Duomo. Niki de Saint Phalle aveva posizionato in galleria uno dei suoi dissacranti altari contro il quale sparava con una carabina facendo deflagrare i colori mentre in piazza Duomo Jean Tinguely aveva allestito un’enorme scultura raffigurante un gigantesco fallo dorato, imbottito di petardi e materiale esplosivo, che, una volta azionato si è autodistrutto tra scintille, scoppi e nuvole di fumo.

I due affondi che ripercorrono il mutare e il rinnovarsi delle ricerche di questi due pionieri dell’arte del secolo scorso rappresentano quindi un doppio ritorno in città che non può essere ignorato.

Macchine celibi 

All’interno delle enormi navate ex industriali dell’HangarBicocca il lavoro di Tinguely trova uno spazio ideale. L’artista, che da giovanissimo aveva iniziato un apprendistato come decoratore di vetrine, dagli anni Cinquanta comincia a realizzare composizioni guardando a modelli come i Mobiles di Alexandre Calder e alle opere rotanti di Marcel Duchamp. Nascono così le sue sculture cinetiche, macchine celibi, fini a sé stesse, che diventano via via più complesse, congegni in grado di essere azionati ma che non hanno una funzione produttiva.

Questi meccanismi sono realizzati assemblando i materiali più disparati (ingranaggi, ganci, travi metalliche, lampade, cinghie, guarnizioni, ruote, giocattoli ecc.) ma, contrariamente alle macchine industriali, non producono alcun oggetto di consumo.

Al contrario alcune di esse oltre a essere improduttive sono distruttive, come Rotozaza n. 2 del 1967, il cui meccanismo è ideato per frantumare bottiglie di vetro, altre invece richiedono un’azione da parte dello spettatore, come Mèta Matic n.10 del 1959, che permette, quando azionata attraverso l’inserimento di un gettone e la pressione su un pedale, di realizzare disegni astratti a pennarello, mettendo così in campo anche una riflessione sull’autorialità e sulla partecipazione del fruitore al processo di realizzazione dell’opera. Queste sculture cinetiche danno vita a suoni/rumori che qui sono orchestrati in una coreografia che si realizza nell’arco di un’ora lungo un percorso che non segue un ordinamento cronologico.

All’apparente inefficienza di questi marchingegni fanno da contraltare le lampade che si trovano nell’ultima parte della mostra, il cui primo esemplare venne realizzato nel 1972 per Niki de Saint Phalle. Queste “sculture lampada”, pur continuando a essere costituite dall’accorpamento di resti vari, a differenza delle altre opere, rispondono alla propria specifica funzione d’illuminazione, infatti dagli anni Ottanta sono state installate anche in bar e café.

Chiude questo spettacolare percorso Le Champignon Magique, del 1989, una delle ultime collaborazioni tra Tinguely e de Saint Phalle. Il gambo di questo fungo, che evoca quelli allucinogeni, è certamente legato al linguaggio espressivo di lei mentre a lui appartiene il cappello composto da oggetti in lento movimento.

Corpi di donne

Così mentre Tinguely mette in atto una critica alla società delle merci e dei consumi Niki de Saint Phalle, già prima degli anni Settanta e influenzata anche dalla lettura de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, con il suo lavoro si scaglia contro ai ruoli sociali di moglie e madre imposti alla donna. Arriverà poi a riflettere e condannare anche altri tipi di marginalizzazione, come quella razziale e quella dei corpi malati (negli anni Ottanta si occuperà infatti anche delle discriminazioni nei confronti delle persone affette da Aids).

La mostra del Mudec restituisce l’incredibile forza sconvolgente che possiedono soprattutto le opere degli anni Sessanta e Settanta. I Tiri sono tra i lavori dalla carica più dirompente, si tratta di una serie di opere/azioni in cui l’artista sparava con una carabina contro a un assemblaggio di oggetti di vario tipo che aveva composto su una superficie piana poi ricoperta di bianco, sotto alla quale erano nascoste sacche di colore.

Colpendo queste ultime faceva scoppiare il pigmento in modo che schizzasse incontrollabilmente con macchie e sgocciolature su tutto il resto, portando inoltre a termine il processo di realizzazione dell’opera in una performance che avveniva in presenza del pubblico.

Un gesto forte e trasformativo: una violenza armata e tradizionalmente maschile che diviene atto creativo. Nelle composizioni in mostra l’artista ha rappresentato cattedrali e altari fatti di elementi conturbanti come bamboline di plastica scomposte (tronchi senza arti e viceversa), statuette votive, conchiglie, sagome di animali e attrezzi di vario genere, mettendo in evidenza anche il suo spirito anticlericale. L’inquietudine di questa prima emerge ancora nelle opere che riguardano il corpo della donna e che non hanno nulla di edificante.

Al contrario, opere come The Lady Sings the Blues del 1965, dedicata a Billie Holiday e che fa parte della serie delle Prostitute (messia femminili immolate per la salvezza della società) rappresenta una donna di colore mutilata, dalle fattezze formose e deformate con il reggiseno ricoperto di ragni, pipistrelli e lucertole e un sesso carnoso, quasi una ferita.

Con opere invece come La sposa a cavallo, del 1997, de Saint Phalle mette in discussione le aspettative rispetto al ruolo della moglie e arriva ad accendere i riflettori sul fatto che possano esistere anche cattive madri. Le chiama Le madri divoratrici, di cui qui è esposta una selezione delle pagine dell’omonimo libro illustrato del 1972.

Saranno poi le gioiose e colorate Nanas, sculture che raffigurano corpi femminili debordanti dalla testa sproporzionatamente piccola e che continuano a contraddire il canone della bellezza femminile socialmente accettato, a prendere il sopravvento e idealmente anche a conquistare il mondo per renderlo un luogo migliore.

Questo immaginario colorato e luccicante continuerà però a essere a abitato anche da presenze sinistre come serpenti e creature mostruose, un mondo a cui lei stessa darà vita costruendoselo attorno nel Giardino dei Tarocchi, realizzato a Capalbio tra il 1979 e il 1996 e ancora oggi aperto al pubblico, un luogo in cui si erigono enormi sculture abitabili dove lei stessa ha vissuto prima di fare ritorno negli Stati Uniti.

Un progetto titanico e dalle dimensioni ambientali con cui un’artista difficilmente si sarebbe misurata, parliamo però di una personalità che, interrogata sulla sua pratica ritenuta insolita per una donna, rispondeva all’intervistatore affermando: «Pensa che le donne possano dipingere solo mazzi di fiori? Io preferisco rappresentare donne che partoriscono. Perché questo è il mio problema, non i fiori!».

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