- Sessanta anni fa, la domenica del 13 agosto 1961, i berlinesi si resero conto che il movimento di truppe già in atto dal giorno prima, aveva lo scopo preciso di tagliare in due la città
- Durante la Guerra fredda Berlino divenne il simbolo delle liberaldemocrazie nel cuore della Germania “liberata” dall’Armata rossa. Nel 1961, fra luglio e agosto, circa cinquantamila cittadini, per lo più giovani, erano passati a Ovest. Il Muro, la “barriera di protezione antifascista”, divenne allora l’unico possibile baluardo contro le “minacce” del capitalismo
- La linea metallica che segna oggi, sul selciato, il percorso del Muro, con le date della costruzione e della caduta, evoca una ferita che tarda a cicatrizzare, come testimoniano vari fenomeni di "Ostalgia”
Sessanta anni fa, la domenica del 13 agosto 1961, i berlinesi si resero conto che il movimento di truppe già in atto dal giorno prima, aveva lo scopo preciso di tagliare in due la città. L’effetto sorpresa non riguardò solo i cittadini comuni. Il filosofo Ernst Bloch aveva deciso di trascorrere insieme alla moglie l’estate del 1961 fra Tübingen e Bayreuth, dove avrebbe tenuto delle conferenze. Nel proseguire il viaggio verso Monaco, apprese, incredulo, che «fra le due Germanie era stato costruito un muro» come annota la moglie Karola nelle sue memorie. La loro scelta di rimanere nella Repubblica federale avrebbe comportato la confisca dei beni, ma ciò che più temevano era la perdita dei manoscritti. Un amico dell’editore Unseld si espose al rischio di recarsi a Jena, nella casa di Bloch, e riuscì a recuperarli e a consegnarglieli in settembre. Il proposito di sovietizzare Berlino si scontrò con una figura simbolo della socialdemocrazia, Ernst Reuter, che era divenuto borgomastro nel 1946. Avendo conosciuto il nazismo e lo stalinismo, Reuter si dichiarava, allo stesso tempo, antifascista e anticomunista. In un momento in cui molti nazisti venivano facilmente convertiti in fedeli funzionari filosovietici, i socialdemocratici incarnavano tutti i caratteri negativi dei “nemici del popolo”, che dovevano essere combattuti o “rieducati”. Il campo di concentramento nazista di Sachsenhausen, alle porte di Berlino, fu rimesso in funzione, come Buchenwald e tanti altri campi, proprio per “rieducare” quanti non condividevano il nuovo corso. Lo spionaggio e la delazione divennero la cifra non solo della politica, ma della vita quotidiana di quel mondo che avrebbe poi dato origine alla Ddr. Questo clima è stato fedelmente quanto tragicamente descritto nel film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, del 2006. La vicenda narrata si intreccia poi con la storia personale del protagonista, l’attore Ulrich Mühe, che scoprì, dai verbali desecretati della Stasi, di essere stato spiato dalla sua seconda moglie, l’attrice Jenny Gröllmann.
Dalla Russia con amore
Durante la Guerra fredda Berlino divenne il simbolo delle liberaldemocrazie nel cuore della Germania “liberata” dall’Armata rossa. Nel giugno del 1948, Stalin decise quindi il blocco di ogni via di accesso, per affermare la propria sovranità sulla città, ma il ponte aereo organizzato dagli americani condusse alla revoca del blocco nel maggio del 1949.
Tutto ciò avvicinò i berlinesi agli alleati e svelò i propositi dispotici di Stalin, fino ad allora considerato un alleato fondamentale nella guerra contro il nazismo. Si giunse così alla formazione della Repubblica federale tedesca nel maggio del 1949. Nell’ottobre dello stesso anno, nacque la Repubblica democratica tedesca. Dal 1949 al 1953, nella Germania federale, fu ministro dell’Economia Ludwig Erhard, teorico dell’economia sociale di mercato. Erhard si propose di realizzare il «benessere per tutti», che si tradusse nel «miracolo economico». Nella Ddr si affermò invece un’economia rigidamente pianificata, in cui i consumi erano sacrificati per privilegiare l’industria pesante.
La situazione ebbe sviluppi drammatici quando, nel giugno del 1953, gli operai impegnati nei lavori della Stalinallee si ribellarono. Stalin era morto tre mesi prima, ma la situazione non era mutata. Berija venne in aiuto al segretario Walter Ulbricht, per il quale Bertolt Brecht espresse il suo apprezzamento e la Volkspolizei della Ddr si rivelò più crudele dei sovietici nel sopprimere la rivolta. È noto che Brecht, replicando al segretario del sindacato degli scrittori, che mostrava la sua gratitudine ai sovietici per aver riportato l’ordine, scriveva con amara ironia: «Non sarebbe meglio che il governo sciogliesse il popolo e ne eleggesse un altro?». Se il tono dei versi era sarcastico, commenta Alexandra Richie, non bisogna dimenticare che lo scrittore «si era schierato contro i lavoratori nel momento in cui venivano falcidiati nella sua città». La poesia fu infatti scritta dopo i fatti del 1953. Il mercoledì 17 giugno di quell’anno, Brecht aveva osservato la protesta dalla finestra di casa sua, scrive Ezio Mauro, e il giorno precedente aveva firmato una lettera di «fedeltà al partito» e di «plauso al compagno Ulbricht».
L’unico baluardo
Il disagio della popolazione era testimoniato dal costante esodo di medici, ricercatori, studenti, professori verso la Germania federale. Nel 1961, fra luglio e agosto, circa cinquantamila cittadini, per lo più giovani, erano passati a ovest. Il muro, la «barriera di protezione antifascista», divenne allora l’unico possibile baluardo contro le «minacce» del capitalismo.
Le potenze occidentali non riuscirono a prevedere la mossa che la Ddr aveva concordato con Mosca, e questo atteggiamento fu visto dai tedeschi, e dai berlinesi in particolare, come una resa nei confronti dell’Unione sovietica. Nelle manifestazioni di piazza il silenzio degli Alleati fu associato alla politica dell’appaesement, adottata nel 1938 verso Hitler. In realtà il muro apparve alle diplomazie occidentali una sorta di minor male rispetto al possibile conflitto che le dichiarazioni di Krusciov lasciavano intravedere. Divenne così il segno evidente della Guerra fredda, in cui, come aveva intuito George Orwell che coniò il termine, la minaccia nucleare avrebbe dato luogo a una situazione di stallo.
Il muro sancì una divisione fra due concezioni, non solo della politica, ma della stessa forma urbana. Oltre la terra di nessuno che divenne Potsdamer Platz, si fronteggiavano così due mondi. Berlino est ereditava la parte monumentale della città, come appare evidente pensando al Mitte, a Unter den Linden e a ciò che quei luoghi custodiscono. La monumentalità, in cui i totalitarismi cercano legittimazione, divenne un modello per il mondo socialista, come, in una diversa declinazione, era avvenuto con i progetti di Speer e Hitler.
A ovest, prevalevano invece scelte dichiaratamente moderniste e il Kulturforum si contrapponeva così all’Isola dei musei, che si trovava a est. Il complesso di edifici rappresentato dalla Neue Nationalgalerie, progettata da Mies van der Rohe, dalla biblioteca nazionale e dalla filarmonica, progettate da Hans Scharoun, costituisce infatti un modello esemplare per l’architettura del Novecento. La ricostruzione del quartiere Hansaviertel fornì inoltre l’occasione per coinvolgere Walter Gropius, Alvar Aalto, Oscar Niemeyer e Le Corbusier, a cui fu affidata, nel 1957, la progettazione dell’Unité d’Habitation che ha preso il nome di Corbuserhaus. Tutto ciò veniva visto a est come una concessione al gusto del capitalismo, rispetto al quale il socialismo privilegiava un accademismo classico. A tale accademismo faceva però riscontro una edilizia abitativa anonima, di blocchi uniformi, edificati in fretta con strutture prefabbricate.
La scissione
Nel romanzo di Christa Wolf Il cielo diviso, del 1963, si può cogliere questa scissione, insieme ideologica ed esistenziale. Manfred sceglie di passare a ovest, dove Rita lo raggiunge, senza però riuscire a condividere quello stile di vita. Si separerà dunque dal compagno per tornare a Berlino est, in cui, pur con qualche sfumatura critica, trova quei valori che a ovest sarebbero stati inquinati, a suo avviso, dalla logica del capitalismo. La stessa Wolf, che aderì al Partito socialista unitario tedesco (Sed), facendo anche parte del Comitato centrale, non mancò, talora, di esprimere qualche cauta riserva sul mondo della Ddr, in cui aveva deciso di vivere, adeguandosi anche ad ambigue forme di collaborazione con la Stasi. La sorpresa che il muro rappresentò al suo sorgere per i berlinesi, per l’uomo comune come per le diplomazie, si ripropose al momento della sua caduta. Fu una sorpresa addirittura per Markus Wolf, già capo dello spionaggio.
La linea metallica che segna oggi, sul selciato, il percorso del muro, con le date della costruzione e della caduta, evoca una ferita che tarda a cicatrizzare, come testimoniano vari fenomeni di nostalgia, che nel 2003 il film Good bye, Lenin, di Wofgang Becker, ha raccontato in modo ironico e drammatico. Nel riprogettare gli spazi di Berlino, che lo storico Alan Bullock ha definito città simbolo del Novecento, è necessario allora, ogni volta, confrontarsi criticamente con un passato che non è possibile rimuovere. Marc Augé coglie, nelle strade di Berlino, un confronto tra memoria e oblio che ci fa sentire la città vicina proprio perché vulnerabile come la nostra esistenza.
Negli appunti che preparavano Il cielo sopra Berlino, del 1987, Wim Wenders scriveva che Berlino è divisa come il nostro mondo, scissa come il nostro tempo, frantumata come ogni nostra esperienza ed è anche, con le sue tragiche contraddizioni, «un luogo storico della verità». È innegabile che la “sicurezza ostentata” di Potsdamer Platz, con le sue arditezze architettoniche, non può vincere, come scrive Augé, il senso di incompiutezza che Berlino comunica. In tale precarietà non possiamo non cogliere, però, la grandezza di un progetto che ha reso questa città un laboratorio di idee e di speranza per il nostro tempo.
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