Nei suoi sette dischi hip hop mescola storia e filosofia, le due materie che insegna in un liceo di Reggio Emilia: «La musica brucia artisti di continuo. Raimo? Il potere non può decidere sul tuo lavoro in base alle tue idee»
Ognuna delle cover dei suoi sette concept album riporta alla mente la copertina di un libro. L’apparenza non inganna con Murubutu, 49 anni, artista di Reggio Emilia che definisce la sua produzione «narrativa in forma musicata». Il nome d’arte deriva dal termine “marabutto”, che «nell’Africa subsahariana è una figura sciamanica in grado di operare guarigioni di tipo fisico e sociale. Un concetto che rimanda al potere terapeutico delle parole».
Ciò che dà un’identità unica al suo progetto è il genere che ha scelto per veicolare i suoi messaggi. Il suo rap scava un solco rispetto alle rime di tanti colleghi: alle sonorità tipiche dell’hip hop unisce cantautorato, storia e filosofia. Le stesse materie che insegna al liceo Matilde di Canossa di Reggio Emilia: perché quando smette i panni del cantante, Murubutu è il professor Alessio Mariani.
Lo contattiamo al termine di un tour sold out nei teatri, nel quale ha riarrangiato il suo repertorio insieme alla Moon Jazz Band, creando atmosfere inaspettate e sonorità inedite nel suo percorso. È già in studio, lavora a un singolo in uscita a gennaio. Prodromo di un nuovo disco su cui mantiene grande riserbo: «Posso solo dire che ci sarà un featuring che sognavo da tempo».
Ha scritto un libro di “rapconti”, organizzato una serie di talk chiamati “Letteraturap”. Sottolinea spesso il potenziale educativo di questo genere che, nella sua versione autocelebrativa tutta testosterone e catene d’oro, ha la fama opposta. Pensa di fare del bene a tutto il movimento?
Nel mio piccolo, sì. Provo a sdoganare il rap presso ambienti della cultura alta, dove è snobbato da sempre: dal Festival della filosofia alla Treccani, con cui ho collaborato per una serie di approfondimenti sulla figura di Dante (un suo disco è ispirato all’Inferno della Divina Commedia, ndr). Tutto questo aiuta a riqualificare questo Medioevo espressivo, eleva l’immagine che c’è del rap nel pubblico.
Molti suoi colleghi hanno riferimenti diversi, con l’obiettivo di fare denuncia sociale e il rischio di finire in un cliché. Può esistere un punto di incontro tra questi due mondi?
Assolutamente sì, una buona sintesi tra il rap più conscious e quello di intrattenimento, tra la trap più becera e lo stile tipico di Caparezza, la sta facendo Nayt, che unisce testi profondi a sonorità fruibili.
Quale rischio vede nella fruizione di questi testi da parte un pubblico di quasi-bambini, che non ha tutti gli strumenti per capire la finzione?
C’è un rischio latente di emulazione, però più che censurare serve educare all’uso dei social, a leggere il patriarcato nella vita quotidiana e a capire che la violenza di certi testi deriva da ciò che c’è nella società. Invece leggo che gli osservatori governativi, più che fornire chiavi di interpretazione, pensano a censurare: si parla di istituire una commissione per il controllo dei testi trap. Ma più si censura e più si attirano i ragazzi verso quelle dinamiche. Per questo mostro come il rap possa essere usato per veicolare contenuti profondi.
Lei è un ex ragazzo delle Posse che negli anni ’90 a Bologna faceva musica politicizzata con il collettivo La Kattiveria. I suoi temi erano quelli della sinistra extraparlamentare, al punto che ha ricevuto attacchi da Forza Nuova.
In Martino e il ciliegio racconto la storia di Prospero Gallinari, l'ex militante delle Br che fu uno dei carcerieri di Aldo Moro. Oggi continuo a fare rap con una certa identità politica, ma medio tutto attraverso la narrazione: la mia musica ha più valenza antropologica che politica. Qualche attacco è arrivato anche da sinistra, per il brano Markus ed Ewa che racconta la storia di due fidanzati nell’epoca del muro di Berlino. Una certa ortodossia c’è anche a sinistra. E io sono contrario all’estremismo dogmatico.
Quando ha deciso di dare una sterzata al suo progetto, passando al rap didattico?
Nel 2006 con l’album Dove vola l’avvoltoio, che è un omaggio alla poetica di Italo Calvino. La mia scelta è anche un po’ una deformazione professionale: il mio lavoro di docente mi ha portato a vedere in un mezzo espressivo così efficace come il rap un modo per inserire temi didattici. Ad esempio, con il ciclo di brani L’armata delle tecniche, mi sono posto l’obiettivo di spingere l’ascoltatore ad apprezzare le figure retoriche.
Come concilia i tour e le lezioni a scuola?
Mi ritengo principalmente un insegnante, in secondo luogo un artista. Concilio tutto attraverso una parola magica: part-time. A scuola la musica mi aiuta, i ragazzi conoscono la mia attività, si stupiscono che sia così competente sulla musica che ascoltano loro. Si crea così un terreno comune di confronto, punto di partenza per parlare di altro. Non uso i miei testi in classe, sarebbe autoreferenziale. Ma ci sono colleghi che lo fanno e mi fa piacere. Alcuni vengono addirittura ai concerti: dal palco vedo ventenni, famiglie, e molte teste bianche.
Come si fa, da rapper con un ottimo successo, a entrare a scuola e tenere i piedi per terra?
La musica brucia artisti in continuazione. Will Page, di Spotify, ha detto che in un giorno escono più pubblicazioni che in tutto il 1989. Dà un’idea di come funziona la macchina discografica: non c’è gradualità, cura, l’importante è buttare fuori qualcosa. Avere un lavoro che mi dà una routine è fondamentale: posso non preoccuparmi di quanto durerà il successo. E quando hai troppo tempo subentra la paura del foglio bianco.
Un suo collega insegnante, Christian Raimo, è stato sospeso per tre mesi per aver espresso un’opinione non gradita dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Cosa ne pensa?
È preoccupante, Raimo ha espresso dubbi legittimi sull’operato del ministro. Poteva essere perseguito dal punto di vista personale, come ogni cittadino: se ci si sente offesi, si querela. Perché sospenderlo? È la mano del potere che interviene e decide che puoi lavorare o no in base alla tue idee.
Qual è la sua idea di insegnamento e di merito, in un periodo in cui si abusa di questo termine?
L’insegnante è quello che riesce a dare agli strumenti per interpretare la realtà, a prescindere dal tipo di interpretazione che ogni studente poi fa. Dà una chiave critica, instilla il dubbio, trasmette la voglia di meravigliarsi, la sete di sapere e la gradualità della ricerca. Il merito è un termine effimero: chi stabilisce chi sia meritevole? Si vede solo dopo anni, nell’immediato contano motivazione e dedizione.
L’attuale maggioranza si è distinta per un atteggiamento di criminalizzazione del dissenso, dai nuovi reati del decreto Sicurezza ai tentativi di censurare la libera espressione delle idee. Veniamo da settimane di agitazioni nella scuola, tra insegnanti precari a vita, stipendi irrisori e la riforma del voto in condotta.
La scuola viene sempre penalizzata, è un lavoro statale su cui si può infierire e che si può ferire con minor cura e investimenti bassi. Da qui dipendono i problemi giovanili: l’istruzione è come la sanità, fa la differenza nella qualità del vissuto comune. E dimostra quanto uno stato è in grado di corrispondere ai bisogni del cittadino.
Lei che dello storytelling ha fatto una missione, come reagisce davanti all’impoverimento del linguaggio della politica tra frasi spot, polarizzazione continua e una bassa cura della verità?
Donald Trump in America ha sdoganato l’epoca della post-verità: non ci si deve più confrontare con la realtà, solo con la comunicazione. L’Italia è una provincia ormai abbandonata, ma ci arriveremo anche noi.
Completi la frase: la sinistra dovrebbe ripartire da...
Dall’antifascismo, senza dubbio.
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