Di recente si è tornato a discutere, prima negli Stati Uniti poi in Europa, sul significato dei monumenti che addobbano i parchi delle nostre città.
Ma il vero problema riguarda il futuro dei musei del Novecento, di cui l’Italia avrebbe o non avrebbe bisogno. La storia d’Italia è stracolma di musei mancati perché irrisolti sono i nodi che frantumano il Novecento in parti disgiunte, fra loro non comunicanti.
Non ci siamo fatti mancare nemmeno l’esperienza di un Memoriale, realizzato a suo tempo con estro e maestria da intellettuali di alto valore, inaugurato sul finire degli anni Settanta e infine sradicato dal luogo al quale era destinato.
Di recente si è tornato a discutere, prima negli Stati Uniti poi in Europa, sul significato dei monumenti, delle statue equestri, dei bronzi, delle lapidi e dei busti marmorei che addobbano i parchi delle nostre città, ma il vero problema riguarda il futuro dei musei del Novecento, di cui l’Italia avrebbe o non avrebbe bisogno.
Ci sarebbe qui per inciso da osservare un’anomalia. L’Italia rimane pur sempre il paese in cui di Memoria si parla tantissimo, ma il vero non-luogo è il XX secolo. Di musei si discute con animosità, non di rado si litiga, raramente se ne inaugurano. La discussione è giunta al paradosso di essere proseguita mentre i musei erano chiusi ovunque, cosa che conferma quanto non siano inclusi tra i diritti/servizi di cittadinanza.
Musei nel cassetto
Curiosità, mista a fastidio, qualche tempo fa aveva suscitato il progetto di un Museo del fascismo che sarebbe dovuto sorgere a Predappio, paterno ostello del Duce. Parimenti è rimasto nel limbo delle buone intenzioni il Museo della Shoah a Roma, pensato per essere costruito in un luogo carico di memorie fasciste come Villa Torlonia, sulla via Nomentana. La storia d’Italia è stracolma di musei mancati, di progetti rimasti in un cassetto, perché irrisolti sono i nodi che frantumano il Novecento in parti disgiunte, fra loro non comunicanti.
Non ci siamo fatti mancare nemmeno l’esperienza di un Memoriale, realizzato a suo tempo con estro e maestria da intellettuali di alto valore, inaugurato sul finire degli anni Settanta, in seguito, e per lungo tempo, abbandonato all’incuria, infine sradicato dal luogo al quale era destinato. Mi riferisco al Memoriale italiano di Auschwitz, costruito su un progetto dell’architetto milanese Lodovico Belgiojoso con la collaborazione di un pittore (Carlo Samonà), un musicista (Luigi Nono), uno sceneggiatore (Nelo Risi) e uno scrittore (Primo Levi). Esempio di memorie condivise fra le diverse forme della deportazione più unico che raro, testimonianza di quel sano pragmatismo lombardo-cattaneano che tanti frutti importanti ha prodotto nell’età del socialismo riformista di Turati e di Treves. Un concretismo, temo, sparito per sempre.
Progetto comune
Un gruppo di ex deportati si era messo al lavoro, solo contro tutti: contro la diplomazia consolare, contro le autorità, italiane e polacche, nell’indifferenza degli storici del Novecento per i quali, allora, la deportazione non era un tema abbastanza à la page. Quel gruppo di sodali mette su da solo «un luogo di raccoglimento e di meditazione», più precisamente un’opera d’arte, certamente «non una mostra documentaria delle atrocità di cui gli italiani furono vittime», come si legge in uno dei documenti preparatori scritto a più mani: «Ognuno, visitando questo Memoriale, potrà farsi le proprie immagini, le proprie idee di ciò che è stato, di ciò che è avvenuto, di ciò che non deve mai più avvenire». Lo “scenario” che Risi e Levi, con l’aiuto di Gianfranco Maris, avevano ipotizzato prevedeva delle brevi frasi di accompagnamento alle strisce colorate da Samonà, pensate come guida: il visitatore entrava dentro una spirale di grandi dimensioni rimanendone magnetizzato.
Le autorità polacche, qualche tempo fa, hanno fatto sapere di non volere più l’opera, giudicandola superata dai tempi. In Italia nessuno ha mosso un dito: si è avviata invece una penosa discussione fra storici, che poco o nulla hanno fatto per difenderla, spiegarla, contestualizzarla.
Oggi il Memoriale è in via di restauro a Firenze, cosa lodevolissima, ma lo sguardo non può non posarsi su quell’altro spazio, lassù, in Polonia, rimasto inesorabilmente vuoto. Siamo così davanti a un paradosso: nel momento in cui scrivo, gli studenti di tutto il mondo che si recano ad Auschwitz sono indotti a prendere atto che dall’Italia non vi sia stata deportazione.
Naturalmente è stata istituita una commissione ministeriale, che quel vuoto dovrà prima o poi colmare, ma una soluzione del pasticcio sembra lontana. Dispiace che il lavoro di quell’affiatato gruppo di amici sia andato perduto, avrebbe potuto costituire un modello per il futuro.
Grave perdita anche per il testo di Primo Levi, scritto per quel Memoriale: s’è finito con il perdere per via il significato di quell’incantevole messaggio universalistico. S’intitola Al visitatore, ha avuto una lunga gestazione, una storia romanzesca piena di colpi di scena, ancora per certi aspetti avvolta nell’oscurità.
Si è creduto, fino a non molto tempo fa, che fosse un testo redatto per essere inciso su una delle spirali del Memoriale.
Perdita grave
Si è ripetuto che i polacchi non lo avevano voluto perché lo reputavano incomprensibile per il visitatore comune e intraducibile in polacco (e questo è vero, conoscendo la storia e le politiche della memoria rispetto al genocidio ebraico da parte di una nazione come la Polonia).
Alla fine si trovò un compromesso: se ne sarebbe riprodotta una minima parte, l’ultimo paragrafo. Sui retroscena che portarono alla diffusione di questo testo disponiamo di ricostruzioni incomplete e parziali. Per anni abbiamo creduto si trattasse di un semplice volantino da mettere in mano all’ignaro visitatore. Converrà prima o poi ricostruire con cura filologica la vicenda e studiare le diverse stesure e insieme le frasi che Levi, d’intesa con gli altri, aveva scelto come didascalie ai quadri di Samonà e alle note di Nono. Frasi di Mussolini, Goebbels, Hitler da un lato, di Matteotti, Parri e altri oppositori del totalitarismo dall’altro.
Gli autori pensavano a uno “scenario” interattivo, di natura quasi teatrale. Certo attribuibili a Levi, le due citazioni bibliche: «Il Signore farà muovere una gente contro di te da lontano, dall’estremità della terra, a guisa che vola l’aquila, una gente della quale tu non intenderai il linguaggio, una gente sfacciata, la quale non avrà riguardo alla persona del vecchio, e non avrà mercé del fanciullo» (Deuteronomio 28, 49-50). E soprattutto la seconda, con il richiamo di Ezechiele (37, 3) alla vita che resiste alla morte: «Il Signore mi disse “Figlio d’uomo, pensi tu che queste ossa riavranno vita?” E io risposi, Dio, Signore, così sia».
Rimase, dunque, il Memoriale, un quadro incompiuto, un museo dimezzato, abbandonato al suo declino, infine rimosso senza scrupoli.
Un caso di rimozione, tanto più grave, quanto più si riflette sul significato delle parole scelte da Levi, che per fortuna ci sono rimaste: «C’erano bambini fra noi, molti, e c’erano vecchi alle soglie della morte, ma tutti siamo stati caricati come merci sui vagoni, e la nostra sorte, la sorte di chi varcava i cancelli di Auschwitz, è stata la stessa per tutti. Non era mai successo, neppure nei secoli più oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi: che si mandassero a morte i bambini e i moribondi. Noi, figli cristiani ed ebrei (ma non amiamo queste distinzioni) di un paese che è stato civile, e che civile è ritornato dopo la notte del fascismo, qui lo testimoniamo. In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si è toccato il fondo delle barbarie. Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, né domani né mai».
Non amiamo queste distinzioni. Parole premonitrici, rimaste inascoltate e da rileggersi con attenzione da parte di chi ogni anno, in prossimità del 27 gennaio, lamenta l’eccessiva memoria identitaria ebraica. Per Levi ogni distinzione, ogni elemento di autoreferenzialità era da ricusare. Parlava ai figli d’uomo, non agli ebrei. La stessa preghiera Ascolta, Israele! non lo interessava in quanto tale. Quando gli capitò di parafrasarla, in capo a Se questo è un uomo, volle che fosse intesa nel senso di Ascolta, mondo! Solo questo ammonimento si sentiva di profferire «con collera appassionata».
Alberto Cavaglion è autore del libro Decontaminare le memorie - Luoghi, libri, sogni (Add editore), da cui è tratto questo testo
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