- È una fascinazione misterica, un misto di fisicità intensa, sensuale, che nel corso degli anni ha mescolato radici e suoni da “mondi lontanissimi”, per citare Battiato.
- Un tribalismo metropolitano, uno snodo tra urbanizzazione e panorami esotici. È la Napoli messa in scena dai Nu Genea, il duo formato da Lucio Aquilina e Massimo Di Lena.
- I Nu Genea saranno ospiti di Jazz:Re:Found nella serata inaugurale di domani. Il duo torna a Cella Monte, nel cuore del Monferrato, un anno dopo la registrazione del video live Place To Be. Domani è media partner dell’iniziativa. Per info e biglietti: www.jazzrefound.it.
È una fascinazione misterica, un misto di fisicità intensa, sensuale, che nel corso degli anni ha mescolato radici e suoni da “mondi lontanissimi”, per citare Battiato. Un tribalismo metropolitano, uno snodo tra urbanizzazione e panorami esotici. È la Napoli messa in scena dai Nu Genea, il duo formato da Lucio Aquilina e Massimo Di Lena.
Freschi di cambio nome (il precedente era Nu Guinea), raccontano una città che fa della sua naturale vocazione all’incontro il suo segno artistico identitario.
Come nell’ultimo brano, Marechià, con una suadente voce francese, quella di Célia Kameni, che parla di memorie di fasti borbonici, erosione, improvvisi squarci di luce.
Esordiscono nel 2015 con The Tony Allen Experiments, seguito nel 2018 da Nuova Napoli. Con DNapoli e Famiglia Discocristiana curano la serie di raccolte Napoli segreta.
Venite da Napoli, un passato recente come protagonisti dell’ondata techno della città partenopea. Poi il trasferimento a Berlino… e lì?
Lì la riscoperta della bellezza e della vastità di un patrimonio sonoro, quello del pop napoletano, specie degli anni Settanta e Ottanta, che si è aperto sotto i nostri occhi come una voragine.
Come spesso succede con le espressioni creative, senza che ci fosse una strategia di mercato. Noi siamo nati artisticamente con la techno, che a Napoli ha avuto, soprattutto nei primi 2000, uno dei riferimenti obbligati del panorama internazionale. Quando ci siamo trasferiti a Berlino lo abbiamo fatto semplicemente inseguendo delle opportunità, non pensavamo che il nostro suono avrebbe subìto una trasformazione così profonda.
È stato, per citare La Terra del Rimorso di Ernesto de Martino, il “cattivo passato che ritorna”?
Forse a livello inconscio. Noi, come tutti nella nostra città, con la musica napoletana siamo cresciuti. I dischi di Pino Daniele sono stati l’ascolto “didattico” che ci ha fatto amare questo suono, tra funk e ricordo. Il napoletano è una lingua dall’incredibile incedere ritmico, ma capace anche di diventare la più seducente delle melodie. Tutto questo era da qualche parte, c’era il desiderio di sperimentare. Prima di Nuova Napoli, il nostro primo album, non avevamo mai composto canzoni. L’altro aspetto importante è la straordinaria capacità del nostro dialetto di fondersi con grande naturalezza con altri idiomi, come il francese che solca Marechià, canzone che gravita intorno alla parola là-bas, che significa laggiù, come il nostro abbasc, strade differenti che portano nello stesso posto, a Marechià. Ma quell’abbasc ha un suono che potrebbe rimandare a una conversazione in un paese della Turchia. È una confusione del senso che, specie all’estero, assume una dimensione globale, restituendo l’immagine di una città dalle mille anime e dalle molte etnie. Che è proprio lo spirito di Nu Genea. Ed è stato un onore portare il dialetto della nostra terra ovunque nel mondo, con concerti dal Brasile alla Russia, di fronte a un pubblico che ne percepiva, al di là della comprensione, la bellezza.
La scoperta ”artistica” del napoletano come è avvenuta?
Dopo gli anni dell’adolescenza, quando a casa la musica napoletana era la quotidianità. Crescendo, abbiamo iniziato a rivolgere la nostra attenzione all’estero. Volevamo uscire dai nostri confini geografici, come artisti, e i linguaggi della dance elettronica apparivano perfetti.
Poi, trasferiti a Berlino ormai da quattro anni, sentivamo la mancanza della nostra città. Una mancanza al tempo stesso assillante, ma anche indefinita. Era il cibo, erano gli odori dei vicoli, il clima, la famiglia. Così, per affezione sentimentale, abbiamo iniziato a recuperare, a scoprire quell’incredibile giacimento sonoro che è stata la città tra gli anni Settanta e Ottanta, tutto quello che si muoveva nel sottosuolo, le piccole produzioni, i gruppi che realizzavano un solo singolo, l’amore profondo che Napoli aveva per il soul, il blues, il funk, senza mai dimenticare le tradizioni. Una passione che è confluita in Napoli Segreta, il lavoro di riscoperta e catalogazione di un patrimonio che altrimenti era destinato alla scomparsa.
Qual è stata la prima sperimentazione in napoletano?
È stata casuale. Dopo la registrazione del disco con Tony Allen, il leggendario batterista di Fela Kuti, uno dei padri dell’afro beat, eravamo alla ricerca di una direzione che prendesse vie inaspettate e abbiamo provato a scrivere in dialetto, componendo un brano per fare uno scherzo alla ragazza di Massimo. Lo trattammo per dargli un suono che lo facesse sembrare come uno dei dischi di qualche decennio prima, tornato alla luce grazie a Napoli Segreta.
E l’effetto fu, per noi, sconvolgente. Era quello che cercavamo, ma non sapevamo, sino a quel momento, cosa fosse. Da allora abbiamo scoperto che comporre in napoletano era quello che volevamo fare realmente.
Con Napoli Segreta avete portato in superficie tanta musica sconosciuta. Adesso è tutto emerso o ci sono anche delle musiche che aspettano di essere “salvate”?
Napoli in quegli anni era uno studio di registrazione a cielo aperto. Tutti volevano fare un disco, non solo quelli che speravano di fare la professione e avevano bisogno di un oggetto promozionale, ma i tanti che producevano un vinile in poche copie, per gli amici, per un regalo. Sotto la Galleria Umberto si riunivano ogni giorno i migliori musicisti della città, che lavoravano “a chiamata”.
Tu avevi bisogno di strumentisti, passavi, li ingaggiavi, li portavi in sala. Quasi come i braccianti che lavorano a giornata. Come un giovanissimo Tullio de Piscopo, che avrà registrato almeno cento dischi senza essere accreditato. Quindi il patrimonio è vastissimo e non sarà mai possibile che venga tutto alla luce. Le opere davvero significative ovviamente sono una piccola parte e pensiamo che molto sia già adesso disponibile grazie a Napoli Segreta. Ma sicuramente è un repertorio che si arricchirà sempre di nuovi ritrovamenti e che noi divulgheremo.
Ci sono state delle scoperte che vi hanno particolarmente emozionato?
Tante. Per esempio le canzoni di Antonio Sorrentino, che è stato anche un grande attore di teatro, scomparso alla fine degli Anni Novanta, e quelle degli Oro, band molto amata da Renzo Arbore, che li considerava uno dei gruppi più originali di Napoli, come scrisse anche nelle note di copertina di un loro disco. Poi l’album di Tonica & Dominante, introvabile. Sono due sorelle che registrano un lavoro fatto quasi esclusivamente di cover, ma con qualche composizione originale funk disco essenziale e coinvolgente, che ha influenzato le composizioni di Nu Genea. Poi c’è il progressive con gli Osanna, gli unici che ebbero un successo internazionale, in particolare in Inghilterra. Il loro disco del 1978, Suddance, con brani come Ce Vulesse, ha avuto un forte impatto sul nostro lavoro.
Avete trovato la vostra Napoli a Berlino…
A Berlino abbiamo trovato quello che ancora in Italia manca: le opportunità, le relazioni, quegli incontri che danno una prospettiva al nostro lavoro. Come quello con Tony Allen, dal quale è partita la nostra nuova carriera. Berlino è una città che ti permette di essere chi vuoi, senza dare alcun giudizio. Noi volevamo superare i confini del “genere”, della techno, e paradossalmente questo è stato possibile proprio nella città europea della techno per eccellenza.
Marechià anticipa un nuovo album?
Sì, siamo in piena post produzione. Sarà un disco che prova a raccontare Napoli in relazione con il Mediterraneo, con tanti ospiti provenienti dai paesi che, nel corso degli anni, sono entrati culturalmente in contatto con la nostra città.
I Nu Genea saranno ospiti di Jazz:Re:Found nella serata inaugurale di domani. Il duo torna a Cella Monte, nel cuore del Monferrato, un anno dopo la registrazione del video live Place To Be, realizzato nell’ambito di un progetto del ministero degli Affari esteri e della cooperazione Internazionale e di IMF (Italian Music Festivals), associazione di cui Jazz:Re:Found fa parte e che mette in rete, promuove e rappresenta 15 fra i più interessanti festival italiani di musica contemporanea e attuale, dal jazz all’elettronica, dalla musica black all’Edm. Domani è media partner dell’iniziativa. Per info e biglietti: www.jazzrefound.it
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