Il fenomeno musicale del decennio è arrivato come un’ondata imprevista sullo scenario italiano. Due libri recenti raccontano (da punti di vista molto diversi) la vitalità di un genere poco capito
Incompresi, odiati, temuti. L’onda inaspettata della trap è arrivata a travolgere tutto, a scombinare i piani, a esondare nei mondi mainstream, lasciando spiazzato chi non si aspettava un tale successo, una così grande capacità di imporsi soprattutto tra i giovanissimi ascoltatori.
I suoi protagonisti, da Ghali a Sfera Ebbasta, da Madame a Baby Gang, hanno polverizzato ogni record di ascolti in streaming, arrivando fino a Sanremo, a portare masse di ragazzini a riempire palazzetti e palchi estivi, a creare una voglia di emulazione che va dall’abbigliamento alla voglia di mettersi in gioco in prima persona, provarci e farcela, con le sole armi di un beat aggressivo e dell’autotune.
Un’orda scomposta e inarrestabile che, come non accadeva da molto tempo, è capace di fare paura. Perché questi artisti, spesso partiti da grezze registrazioni in cameretta per arrivare a farsi contendere dalla più importanti case discografiche italiane, sfuggono a categorie e traiettorie conosciute, superano i concetti di underground, scena, controcultura, per imporsi a modo loro, forti di un nutritissimo seguito sui social media e di un successo commerciale che pochissimi altri hanno ottenuto così rapidamente.
La più grande novità del decennio
Per aiutarci a fare chiarezza su questo movimento, arriva il libro Trap! Suoni, segni e soggettività nella scena italiana (Novalogos), in cui i due autori Sebastiano Benasso e Luca Benvenga mettono insieme gli interventi di una quindicina tra accademici e ricercatori, esplorando le caratteristiche e le contraddizioni che coesistono in quella che è la più grande novità che la musica ha conosciuto nell’ultimo decennio.
È il 2016, l’anno della trap, quello in cui moltissime di queste produzioni si prendono uno spazio che ancora non esisteva. La trap riesce a diventare il genere musicale delle seconde generazioni di immigrati, che mai si erano sentiti così rappresentati in musica, fino a quel momento. Racconta la vita di chi abita le periferie, di chi si trova costretto a crescere tra povertà e microcriminalità, di chi attraverso le proprie canzoni cerca un riscatto, una via d’uscita.
Che non è mai, tuttavia, una via d’uscita dal sistema che ha creato questa situazione. «La narrazione della trap italiana si sottrae dalle aspettative di collettivismo, antagonismo e resistenza al mercato e, anzi, amplifica il proprio messaggio proprio grazie alle posizioni di vertice raggiunte nel mercato», spiegano i due autori nel capitolo introduttivo.
La trap apparentemente condivide molti tratti in comune con l’approccio do it yourself del punk e del rap, mostra la stessa voglia di provocare, l’irriverenza, i testi arrabbiati e taglienti. Ma non cerca l’emancipazione, la rivolta, non conosce la dimensione politica del punk.
Mentre il rap, il genere musicale da cui più ha preso ispirazione, disconosce i trapper, perché «ne trasgrediscono i canoni metrici non chiudendo le rime, una forma di tradimento della sacralità del flow, considerato dalla vecchia guardia come emblema distintivo dei rapper». È proprio questa sfrontatezza, la mancanza di rispetto verso presunti canoni, che crea apertura, democratizzazione, un’invasione fuori controllo che parte dal basso.
Destrezza tecnica
La facilità con cui ci si appropria dei mezzi tecnici (in questo sì, molto punk), la rende accessibile, alla portata di tutti, anche di chi non sa nemmeno come sia fatto uno studio discografico professionale. In una scena molto maschile, troppo spesso ancora caratterizzata da testi machisti e sessisti, si sono fatte spazio artiste come Chadia Rodriguez, Beba, Priestess, Comagatte, che rivendicano il successo in un ambiente pieno di pregiudizi.
«Quello che non è messo in discussione è il mercato in quanto sistema simbolico e sorgente valoriale dalla quale attingere in senso identitario»: i brand e i marchi commerciali sono presentissimi nei testi di molti trapper, simboli di un lusso che si vuole possedere, a tutti i costi. La trap è, forse come mai prima, la colonna sonora del capitalismo, da cui non si sfugge, di cui non si riesce a immaginare la fine.
La trap contiene in sé un’energia sovversiva, che però non sfocia mai nella rivoluzione: sfida l’ordine delle cose, ma non vuole cambiarle, si ferma a esprimere un tumulto dal nichilismo inesorabile.
Si è parlato molto del panico morale che genera, rivolto tanto ai trapper che ai loro ascoltatori, ben esemplificato dalle recentissime parole del sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi, che intervistato da una radio privata ha avanzato la proposta di un «protocollo di buone intenzioni» per prevenire l’uso di espressioni offensive o violente nei testi delle canzoni, con un riferimento chiaro a molti artisti trap, «che spesso hanno delle vite improntate alla violenza che propugnano». Ma è precisamente questa mancanza di speranza a fare paura.
Musica viva
La percezione di cosa sia la musica trap cambia radicalmente quando si osservano le cose più da vicino. È quello che ha fatto lo scrittore Valerio Millefoglie nel suo ultimo libro, Tutti vivi (Mondadori), un romanzo che racconta la storia vera di quattro ragazzi, tutti tra i 20 e i 23 anni, che in una notte di gennaio del 2022 sono finiti con l’auto nel fiume Trebbia, in provincia di Piacenza, e non sono più riemersi.
Domenico, William e Costantino fanno musica, sono un collettivo trap. Elisa è con loro, frequenta Costantino da qualche mese, segue la genesi delle loro canzoni, li supporta, annota tutto sul suo diario.
Per Il Dome, Wollas e Milions, i nomi d’arte scelti dai tre, la musica trap è la chiave per poter ambire a qualcosa di meglio, a un mondo completamente diverso, lontano dalla noia di un paesino sperduto nella pianura: è così, del resto, che si è sentito ogni ventenne in qualsiasi provincia del mondo. Non solo la musica: ci sono i primi esperimenti di un proprio marchio di abbigliamento, Origine, e nasce l’idea di trasferirsi a Milano, dove le cose accadono.
L’incidente interrompe ogni progetto. Millefoglie, esperto di rap e trap, viene contattato da un giornalista del quotidiano locale Libertà, per commentare la musica del collettivo. Qualche giorno dopo la pubblicazione del suo intervento, uno dei genitori dei ragazzi lo contatta, gli confessa che ora vorrebbe far conoscere a tutti la musica di suo figlio.
Millefoglie decide di partire per Piacenza, dove torna più volte, conoscendo le famiglie, i genitori gli amici, i luoghi in cui i ragazzi filmavano i videoclip delle proprie canzoni. Prende appunti, mentre segue quello che accade: le famiglie decidono di unirsi e fondare una casa discografica per pubblicare le canzoni del collettivo e farle conoscere a tutti, tre dischi che saranno consegnati anche al papa.
Ne nasce anche un tour, dei concerti con il palco vuoto, in cui i presenti ascoltano le registrazioni di canzoni che, ora, hanno acquisito un significato che oltrepassa infinitamente le intenzioni di chi le ha scritte. La musica è lo strumento che permette di incontrarsi ancora, di sentirli ancora vicini. Si chiama trap, il modo per tenerli ancora in vita
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