«Il rap è strada, deve denunciare ciò che non va. Nel mirino è bene che ci finiscano la politica e il lavoro», dicono gli artisti del quartiere Barriera di Milano. Ma quello della città è un panorama musicale complesso, che racconta una realtà fluida e in mutamento
La storia di Giovanni Humareda, che tutti conoscono come Huma, nasce nel complicato e multiculturale quartiere di Barriera di Milano, a Torino. Oggi lo troviamo invece sui palcoscenici più importanti d’Italia. Dalla strada a X Factor, fino a un ruolo da protagonista nella serie Blocco 181. Il grande pubblico lo ha conosciuto proprio durante l’esibizione nel famoso talent: Huma ringrazia la madre con le sue barre su serpentine trap mentre lei è in lacrime. In quelle strofe il 20enne rielabora un passato burrascoso che ha trovato nella trap e nelle periferie la sua valvola di sfogo.
L’incontro
È luglio e nel caldo di un sabato mattina torinese dominano i mercati. Quello di Porta Palazzo è uno dei più grandi d’Europa, e nel tempo è diventato un vero e proprio simbolo del capoluogo sabaudo. Ma in Barriera di Milano il più frequentato è quello in piazzetta Cerignola: il riferimento è alla cittadina pugliese in provincia di Foggia. Barriera è un quartiere che ha vissuto le varie ondate di immigrazione a Torino, e con loro tutte le sfaccettature di un’integrazione a volte difficile, altre proficua.
Passeggiamo con l’artista, accompagnato dal manager, e Huma ci ricorda di «non esporre molto il microfono e la macchina fotografica». Il quartiere dopotutto è schivo e conviene non dare troppo nell’occhio. Lui invece non è affatto diffidente e parte con un attacco ai colleghi rapper: «Il rap è strada ma non nasce per raccontare chi spaccia: deve denunciare ciò che non va. Nel mirino è bene che ci finiscano la politica e il lavoro».
E poi per il trapper, la musica conta come messaggio ma anche come strumento di emancipazione. E di superamento dei confini del quartiere di provenienza: «Spesso chi nasce in Barriera, rimane qui. La musica mi ha spinto a volere sempre di più: a un certo punto, non mi bastava. Volevo prendermi Milano, l’Italia».
Sono tanti i ragazzini e le ragazzine che lo seguono. Perché Huma, come tutti i rapper, esprime la voce di una generazione che spesso, però, non è compresa dai media mainstream. Non è un caso infatti che proprio lui, assieme ad altri trapper e rapper di Barriera, fosse entrato nella bufera mediatica nata dalla pubblicazione di articolo che rappresentava gli artisti del quartiere come criminali.
Il rap è da sempre parte del più ampio universo hip-hop in cui la musica fa da sottofondo a un certo stile, espresso anche nell’abbigliamento. Catene al collo, giacche dai colori sgargianti, scarpe costose: i trapper segnano un’estetica che i fan seguono e ripetono. Huma, invece, definisce una tendenza tutta personale. Che si unisce a una forte consapevolezza del suo corpo oltre qualsiasi bodyshaming: «Mi sento unico, sono uno dei pochi artisti italiani “grassi” a parlarne con tranquillità. Con spensieratezza, lanciando sorrisi. Sia chiaro, non sto assolutamente promuovendo l’obesità. È una malattia e come tale va curata come sto cercando di fare. Ma nel frattempo non rimango in casa a piangere, a pensare al suicidio. Esco, mi diverto, vivo».
Il quartiere così com’è
Il nome è inequivocabile: Vandal Barriera porta nel suo alias il senso della musica che produce. E non solo, perché dalle barre viene fuori anche la sua esistenza fatta di episodi di microcriminalità, da cui oggi prende le distanze dopo l’esperienza del carcere. Grande spazio poi viene dato alla sua quotidianità nel quartiere di Barriera di Milano.
In una domenica di luglio il sole picchia forte, al punto che il parco Peccei sembra quasi un’oasi verde in cui trovare pace in città. Vandal ci raggiunge e indossa uno di quei completi che si vedono spesso nei feed Instagram dei trapper più seguiti. Ci spiega che arriva dalla Romania e che ora, con le sue rime, punta a raggiungere i grandi palcoscenici.
Ciabattine ai piedi con calze, pantaloncini, sguardo vispo. Il giovane rapper ha tanto da raccontare e comincia proprio dai suoi brani. Barriera Freestyle per esempio, uscito nel 2020 con la produzione di Zimo, ha un ritmo serrato e incessante. Si apre con il suono di colpi di pistola e poi Vandal libera il racconto di una realtà dura e cruda. «Barriera, la zona è calda…»
Il quartiere, a partire dal cap 10152, è nel suo nome, nei suoi testi. Si tratta di una zona da cui il rapper non vuole uscire. E questo lo differenzia da molti altri artisti che, già dai primi brani, raccontano di voler fuggire dalla periferia. Vandal invece insegue una strada diversa di successo: vuole piuttosto portare Barriera nel mondo con la multiculturalità e le difficoltà che la contraddistinguono dalla “Torino bene”.
Le sue strade assumono agli occhi di Vandal la dimensione di una città intera in cui tutte e tutti si conoscono e possono bastare a sé stessi. Barriera di Milano è un quartiere multietnico di Torino, dove è facile mischiare la propria cultura alle tante altre che si fanno sentire nelle spezie o nelle voci per le strade. Vandal ci racconta che qui ci vivono quelli che il centro della città vuole emarginare: lo si capisce dagli autobus che circolano tra la spazzatura e dalle strade rattoppate.
Abitarci significa essere uno degli ultimi, dice il rapper, soprattutto perché le amministrazioni locali non capiscono che non basta tentare di riqualificare un quartiere con le panchine colorate. Per provare a cambiarlo bisogna dare nuove opportunità alle persone, che oggi vedono ancora una prospettiva solo nella criminalità e nello spaccio. Se uno decide di farsi qui non è per moda, continua Vandal. Pensa piuttosto di non potersi permettere altro, il suo disagio è la droga, è l’accoltellamento o il furto in strada.
L’altra faccia della trap
Nel nostro viaggio tra i quartieri di Torino, Napoli e Roma, accompagnati dai rapper che li abitano e li raccontano, la figura di Seela è diversa dalle altre che abbiamo incontrato. Parliamo infatti di un’artista che usa le barre per dire la sua su temi universali, come l’amore, con uno stile più vicino alla dancehall. Nei pezzi che ci fa ascoltare la musica si fa più ritmata e ballabile. Seela vive nel quartiere Aurora, precisamente in via Catania. Una zona che, con la nascita del Campus universitario, ha vissuto una fase di rivoluzione. Seela, di origini calabresi ama il suo quartiere ma preferisce non denunciarlo o evidenziarne gli aspetti negativi.
Eppure non nasconde, nella nostra chiacchierata davanti a una torta, un caffè e numerose sigarette, una certa avversione nei confronti di Torino. Secondo Seela si tratta di una città che non permette a un artista di fare il salto, al contrario di Milano dove fare un incontro fortunato è per certi versi più facile. Soprattutto se si fa un tipo di musica come il suo. Soprattutto se si fa un tipo di musica come il suo.
La produzione di Seela unisce il rap ai ritmi sudamericani della dancehall, a conti fatti ha quindi poco a che fare con la trap. E questo vale anche per i contenuti dei suoi testi: pur vivendo in un contesto periferico, infatti, Seela contesta la narrazione che ne fanno i suoi “rivali”. Non intende raccontare il disagio generazionale, o tutto ciò che la strada può essere capace di toglierti: lui vuole parlare di come le vite cambiano quando si decide di fare un pezzo di strada insieme. La gente ha bisogno di serenità e con la sua musica prova ad andarci vicino.
Rapper letterario
Dalla gentrificazione di via Catania, ci spostiamo in un afoso lunedì di luglio nel quartiere di Borgo Vittoria, l’area oggi conosciuta per il Parco Dora. In questa area post-industriale messa a disposizione di artisti, skater e sportivi, un tempo svettavano le fabbriche Fiat. All’ombra delle torri del Parco incontriamo Cass, un altro artista capace di imporre la sua idea estetica e formale di trap. Anche lui ha raccontato il quartiere in un brano, firmato assieme a Nicola Vallarella – manager di Huma – e Riccardo Maroccoli. Cass ha una camicia bianca, lo sguardo delicato, gli occhi pieni di sogni.
L’attitudine da attore lo accompagna anche fuori dal teatro o dal set dei film a cui partecipa. Cass canta, rappa, scrive poesie, recita, rappresentando così un perfetto esempio della fluidità e della contaminazione che contraddistinguono le nuove generazioni. «A un certo punto mi sono sentito in difficoltà: non sapevo chi essere. Poi mi sono detto: posso essere tutto ciò che voglio». E così Cass scrive, rappa, recita.
Si sente lontano dai colleghi trapper, vicini a livello geografico, lontani sul piano stilistico. «Io sono un outsider del genere. Ho vinto un contest con una canzone dal titolo Rapper letterario. Mi sono presentato con questo look un po’ da intellettuale, con gli occhialetti». Ma era una messa in scena. La vena da attore si è palesata. «Chi mi conosce, rideva. Con questo pezzo letterario ho avuto un sacco di riscontri. È un pezzo aggressivo ma con delle quartine poetiche».
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