Il padre aspettava che la figlia uscisse dallo spogliatoio, alla fine del suo primo allenamento di basket. Uno degli allenatori  era un ragazzo della prima squadra. Il padre l'aveva già visto, era alto e dinoccolato e schiacciava con una mano sola. 
«È morto Bill Russell», gli disse, tanto per rompere il ghiaccio.
«Ho sentito dire che era proprio un grande».
«Il più grande centro della storia», precisò il padre. 
«Più grande di Kareem Abdul Jabbar?».
«Sì». 
«E in cosa primeggiava?».
«Lealtà sportiva». 

Il ragazzo sorrise. Nel frattempo la bambina era uscita dallo spogliatoio. Ci aveva messo un po’ di tempo, e adesso erano rimasti soli in palestra.

Una partita vera 

Il padre e il ragazzo continuarono a parlottare, di Bill Russell e di quanto la dedizione al gioco facesse la differenza. Lo sport era una malattia, con buona pace dei salutisti. 
«Senza ossessione non c’è competizione», disse il padre. 

Il ragazzo fece di sì con la testa e raccolse gli ultimi palloni dispersi per il campo. Se ne sarebbero dovuti andare, ora. Si sarebbero spente le luci, forse un custode o direttamente il ragazzo avrebbero chiuso l’ingresso della palestra a doppia mandata. Il padre sapeva tutto questo, e tuttavia non riesci a trattenersi e propose un uno contro uno. 

Il ragazzo lo guardò poco convinto, poi gli passò la palla. «Vince il primo che arriva a sei».

Il padre annuì, si dette una modesta spinta con le gambe e provò a mettere un tiro da tre in sospensione. La palla rimbalzò sul ferro. Il ragazzo agguantò facilmente il rimbalzo, fece qualche palleggio e andò a schiacciare. Il padre dette un'occhiata alla figlia, che era retrocessa diligente a bordo campo e non si perdeva una mossa della partita. Era come in adorazione, ma non si capiva se di lui, del ragazzo o soltanto del gioco.

Il ragazzo si mise in posizione per un nuovo attacco e il padre pensò di dirgli una cosa umiliante quanto necessaria: se poteva lasciarlo vincere. Sarebbe bastato un sussurro ma qualcosa in lui si ribellò: da giovane aveva giocato a buoni livelli; non era stato la stella della quadra, ma neanche il brocco che guarda la partita dalla panchina.

Alla fine non disse un bel niente e riuscì a rubare la palla al ragazzo durante un giro in palleggio. In fondo il ragazzo non era granché come palleggiatore. Il padre si tenne lontano dal canestro, sapeva che quella era la sua unica possibilità di vittoria. Tentava una penetrazione e poi, quando il ragazzo ben piegato sulle gambe gli chiudeva lo spazio, rinculava verso la lunetta.

Con pazienza, in maniera un po’ ripetitiva, riuscì a mettere due tiri consecutivi da una distanza intermedia. Ok, erano stati attacchi pavidi ma gli avevano consentito di portarsi a un solo canestro dalla vittoria.
«Devi migliorare nel trattamento di palla», suggerì al ragazzo prima di farsi stoppare in una penetrazione. Adesso il ragazzo era tornato in attacco e con un movimento lungo linea lo fulminò depositando le palla nel canestro con l’aiuto del tabellone. 
«Quattro pari, ti conviene abbassarti sulle ginocchia e cercare di difendere», disse il ragazzo. 

Il padre seguì il suo suggerimento ma quei pochi minuti sul parquet l’avevano già prostrato come se avesse giocato una partita intera. Al ragazzo bastò una finta a sinistra per cambiare direzione e andare a canestro con un agile terzo tempo. Il padre era caduto e il ragazzo andò a rialzarlo con una mano. Anche la figlia era entrata in campo e gli aveva dato il cinque. 

Perdere per vincere 

(AP Photo/Michael Dwyer, file)

«Il basket è pulito perché vince il più forte», scherzò il ragazzo, in realtà cogliendo l’essenza dello sport.

«Bill Russell approverebbe, – confermò il padre. – Lui è stato capace di vincere otto titoli consecutivi coi Boston Celtics, undici totali, contro tutti, contro la società dei bianchi, spesso anche contro il razzismo conclamato della stessa città per cui giocava». 

Il ragazzo e la bambina cominciarono a ridere e scherzare, avviandosi all’uscita. Le cose andavano come dovevano andare, i vecchi erano sostituiti dai giovani. Le leggende però non morivano mai. Bob Cousy, Jerry West, Doctor J e Michael Jordan, Larry Bird e Magic Johnson. 

Tutti loro avrebbero preferito perdere piuttosto che vincere con un trucco. Il padre riprese la palla e se la fece passare sotto le gambe un paio di volte, poi si fermò e mise una bomba da tre perfetta che toccò solo la retìna, un trionfo, un’apoteosi, lì nel silenzio di un campo deserto, nell’immobilità di una palestra senza pubblico. 

© Riproduzione riservata