- Equaly, la community di cantautrici, interpreti, musiciste, foniche e altre figure professionali del settore, ha pubblicato i dati sul gender gap nei festival musicali di quest’estate
- Considerando 38 festival nel territorio italiano, su 775 progetti musicali totali le artiste soliste erano il 18 per cento e le band con almeno una presenza femminile il 5 per cento
- Sono dati che rispecchiano le disuguaglianze strutturali nell’industria musicale, che possono essere affrontate solo con una volontà di azione a livello di sistema
Con la fine della stagione arrivano i bilanci sui festival musicali che hanno scandito l’estate da nord a sud, con un ritmo incalzante e finalmente senza restrizioni. Eppure, per quanto i conti nelle casse ricomincino a tornare, altri numeri rivelano una situazione che preoccupa ancora: quelli sul gender gap, letteralmente “divario fra generi”, un concetto usato a livello internazionale per indicare la distanza fra la condizione lavorativa maschile e quella femminile, chiaramente a svantaggio della seconda.
Equaly, la community di cantautrici, interpreti, musiciste, foniche e altre figure professionali del settore, ha pubblicato i dati relativi a quest’estate e, considerando 38 festival nel territorio italiano, su 775 progetti musicali totali le artiste soliste erano il 18 per cento e le band con almeno una presenza femminile il 5 per cento.
La sproporzione
Fondato nei primi anni Ottanta, lo Sherwood Festival è uno dei festival italiani più longevi e quest’anno si è tenuto dal 15 giugno al 16 luglio al Park Nord dello Stadio Euganeo di Padova. Molto impegnato dal punto di vista ambientale, rispetto alla questione di genere presenta numeri sproporzionati: fra 24 headliner, cioè i nomi di punta in prima serata, che fossero band, solisti o collaborazioni, c’erano solo due donne, Margherita Vicario e Skin degli Skunk Anansie.
Poco cambia nei concerti di apertura e sul secondo palco, dove i progetti con almeno una musicista erano sei su 48. Detto altrimenti: dei 125 musicisti che hanno calcato i palchi minori le donne erano appena otto.
«Quest’anno avevamo pensato ad altre artiste, ma a livello di riuscita della serata non ci avrebbero dato la garanzia. Sarebbe stato un rischio, perché i tour non andavano bene» spiega il direttore artistico Alex Favaretto.
L’argomento è forte, ma il termine “garanzia” sembra piuttosto netto quando di mezzo c’è la variabile-pubblico, capace di giocare brutti scherzi anche a nomi quali Marracash o Mahmood (si vedano i concerti a Villa Ada e a San Severino Marche).
«Il tema ci sta a cuore e sicuramente cercheremo di aumentare la presenza femminile. Però, oltre a un insieme di fattori che si devono allineare per inserire determinate artiste nel cartellone, c’è tanta disparità alla base perché ci sono molte meno artiste donne» prosegue Favaretto, sollevando una questione di grande rilevanza.
Attenzione per il tema
Stando a un’analisi di Billboard pubblicata a marzo, a livello internazionale le musiciste presenti nelle classifiche delle hit sono il 21,8 per cento del totale. Da un lato, quindi, si può pensare che il mercato non spinga a sufficienza sulle artiste donne, dall’altro che il numero delle artiste donne sia inferiore a quello degli uomini. In ogni caso, data questa percentuale come un utile ma scivoloso punto di appoggio, altri festival in Italia hanno riservato maggiore attenzione al tema.
È il caso di Mi Ami, festival che promuove la musica indipendente, soprattutto italiana, con tre giornate di concerti all’Idroscalo di Milano verso fine maggio. Quest’anno, fra gli 88 progetti saliti sui vari palchi 32 includevano almeno una presenza femminile, erano cioè soliste o band miste con almeno una musicista (se si contassero le donne sul totale dei musicisti, il numero sarebbe ben più basso).
Erano quindi il 36 per cento, più dell’edizione precedente. «Porre la questione in termini percentuali mi sembra un modo brutale di ridurre un discorso complesso» afferma il direttore artistico Carlo Pastore. «Trovo anormale dover fare una line-up per forza 50 e 50 oppure avere soltanto uomini, perché non scelgo il genere dell’artista, ma i dischi, la qualità, il valore. Con Mi Ami continueremo a costruire un posto accogliente nei confronti del talento e sensibile alle istanze della contemporaneità, perché vogliamo stare da quella parte del mondo».
Quest’edizione, in particolare, ha dato ampio spazio alla scena emergente, dimostrando quanto fermento c’è in Italia. Non solo. «Quando guardi ai più giovani, ti accorgi che qualcosa è cambiato. Nella musica italiana, il lato femminile della generazione Z sprigiona davvero tanta energia ed è questo che ci convince». In effetti, secondo uno studio pubblicato da Spotify, la forbice fra il numero di artisti maschili e femminili comincia a stringersi con gli under 30, confermando che la questione ha un carattere culturale.
Le dj
Esiste poi un’altra scena in cui il gender gap si assottiglia. Andrea Esu è il direttore artistico di Spring Attitude, festival romano che si tiene a settembre e a band e cantautori alterna alcune fra le più interessanti produzioni elettroniche del momento. In quest’ambito il festival ha ospitato la maggior parte delle artiste, dalla regina della consolle Ellen Allien a Whitemary con il suo stile ibrido e originale, da Ginevra Nervi e i suoi brani multistrato alla dj The Blessed Madonna.
«Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di dj donne. Sono anche più richieste degli uomini e possono avere cachet molto importanti» spiega il direttore di Spring Attitude, che nel cartellone contava almeno una presenza femminile nel 27 per cento dei progetti coinvolti. «Preferisco quando le cose accadono in modo naturale, senza imporsi delle quote. Mi sembra anche una forma di rispetto invitare delle musiciste non perché devono andare a colmare un gap, ma perché ti piacciono realmente e le trovi adatte al contesto. Però, visto che il problema c’è, si può impostare una scelta meno istintiva e più attenta» conclude.
Altri divari
Oltre ai numeri nudi e crudi, che sono certamente un modo piatto benché oggettivo di comunicare il problema, esistono altre forme diffuse nell’universo dei concerti in cui si esprime il gender gap. Per esempio, la scelta di assegnare alle musiciste palchi minori o fasce orarie pomeridiane, quindi meno seguite. Oppure la tendenza ad accorpare i live nella stessa data o nello stesso luogo, sulla scia di quel concetto tanto nocivo quanto stereotipato che è “al femminile”. O ancora, la scarsa abitudine a dare la giusta credibilità alle musiciste.
Federica Furlani, in arte Effe Effe, è una violista e compositrice di musica elettro-acustica di stanza a Milano. Diplomata al conservatorio, oltre al progetto da solista riassunto nell’EP Tuning Scapes, scrive musica per il teatro, muovendosi dal Teatro Stabile di Torino al Piccolo Teatro di Milano alla Biennale di Venezia. «A volte quando faccio concerti o vado nei teatri e devo ricoprire un ruolo più tecnico, mi capita di non essere presa sul serio» racconta. «Anche se sento di essere stata abbastanza fortunata nel mio percorso professionale, sono convinta che il problema della rappresentazione femminile esista».
Come si cambia
Cosa costruisce allora questa rappresentazione? Al tema la dottoressa di ricerca in Comunicazione e nuove tecnologie Alessandra Micalizzi ha recentemente dedicato una pubblicazione dal titolo Women in Creative Industries. «L’idea del libro mi è venuta perché sono anche docente di Sociologia dei Nuovi Media al Sae Institute di Milano (una delle più note scuole di produzione audio-video in Italia, ndr). Nelle classi di produzione audio il numero di donne era veramente esiguo e la cosa, da sociologa, mi ha incuriosito» spiega.
Quindi, dopo un’analisi delle barriere presenti nella nostra società a livello culturale, a cominciare dal linguaggio, Micalizzi ha condotto uno studio su un campione di intervistati. «Una serie di barriere fanno sì che il numero di donne nel mondo della musica, soprattutto dietro al palco e agli apici, sia ridotto, a volte vicino allo zero. Quindi alle ragazze mancano i modelli culturali che possano fare da figure guida per costruire un proprio immaginario di carriera». E conclude: «Le cose stanno cambiando negli ultimi anni, ma serve una volontà di azione».
Fra le iniziative in questa direzione, occupa un ruolo sempre più importante Keychange, un programma fondato nel 2017 da Vanessa Reed con una serie di sponsor sparsi fra Europa e Canada per promuovere le minoranze in musica – vale dire donne e identità non binarie – e dal 2019 finanziato anche dall’Unione europea. L’agenda di Keychange prevede per gli artisti selezionati una serie di panel e laboratori con colleghi, produttori, agenti ed editori, oltre all’esibizione in uno dei festival partner, che hanno deciso di abbracciare la causa.
Fra le tre artiste italiane selezionate per il 2022 c’è anche Effe Effe. «La cosa più utile di Keychange è che è un network» commenta, «crei contatti e ti confronti con persone che affrontano le tue stesse difficoltà». E che condividono simili responsabilità. «Durante i laboratori a Tallin, siamo giunte a una conclusione fondamentale. È giusto che ci siano attenzioni particolari nei confronti delle donne e delle identità non-binarie. Ma è giusto anche che manteniamo il dialogo aperto con gli uomini, vanno inclusi nel discorso. Se no diventa solo una battaglia, non può funzionare».
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