Il saggio di Lo Giudice parte dalla consapevolezza che il giudizio giuridico è in equilibrio fra oggettivo e soggettivo. Il fascino di un procedimento che è incerto e fallibile in quanto incarna il senso della nostra costitutiva finitezza
In un saggio dal titolo Torniamo al giudizio, pubblicato sulla Rivista di diritto processuale civile nel 1949, Francesco Carnelutti descriveva il processo come un’azione drammatica in cui si contrappongono chi giudica e chi è giudicato.
«Due uomini. Questo è il problema. Due fratelli. Questa è la soluzione», commentava Carnelutti, introducendo una riflessione sulla condizione umana che oltrepassa i confini dell’ aula di un tribunale. Da questo scritto prende le mosse Alessio Lo Giudice nel suo recente Il dramma del giudizio (Mimesis, 2023), nella consapevolezza che il giudizio giuridico non può aspirare all’oggettività assoluta e non può, al tempo stesso, affidarsi al mero soggettivismo. Ne scaturisce un conflitto che il giudice vive su di sé e che si mette in scena nel processo.
Dialogo a distanza
Nel chiedersi come sia possibile fondare il giudizio in assenza di un concetto universalmente condiviso di giustizia, Lo Giudice entra in dialogo con quanti si sono confrontati su questo terreno, come Salvatore Satta, secondo il quale una società segnata da una crisi di senso «non vuole il giudizio». Al di fuori di una impostazione essenzialistica, il giudizio diviene allora, come sostiene Franco Cordero, un insieme di conoscenze perfettibili che cerca di aderire il più possibile alla verità, ancorandosi alla certezza delle procedure.
Il proceduralismo, costitutivamente garantista, si distingue dal modello autoritario, che incarna una concezione ideologica del diritto. Ecco perché il giurista sovietico Michail S. Strogovic contrapponeva alla «verità probabile» del formalismo «borghese», la «verità nel senso proprio di questa parola» che regnava nei tribunali per nulla garantisti dell’Urss.
Se l’assolutismo è legato al totalitarismo, il relativismo, come ha messo in luce Hans Kelsen, è alla base delle liberaldemocrazie, in cui entrano in dialogo punti di vista diversi che non vogliono arroccarsi su certezze monolitiche. La verità formale si distingue dal modello sostanzialistico perché sa di poter essere messa in questione. È proprio questa specificità, inaccettabile per la mentalità totalitaria, che sottrae l’imputato all’arbitrio del potere.
Il positivismo giuridico è stato chiamato a confrontarsi con situazioni-limite, come è avvenuto dinnanzi alla barbarie del nazifascismo. L’interesse per il giusnaturalismo rinacque allora anche nell’ambito dello storicismo, come testimonia il libro di Carlo Antoni La restaurazione del diritto di natura. Si avvertiva infatti l’urgenza, in quel momento, di definire dei limiti entro cui il diritto positivo potesse accogliere alcuni essenziali principi che i codici avevano calpestato. L’esigenza di Carnelutti di individuare nel giudizio una relazione di fraternità esprime proprio questo sentire.
Nel novembre del 1946, su Il Ponte, Piero Calamandrei, a proposito del processo di Norimberga, dissentiva da quanti si impietosivano «dinanzi a queste forche e a questi giustiziati». Se si accettava che quel che lo stato permette, o addirittura premia, non può essere considerato un delitto, i criminali processati, scriveva, potevano trasformarsi in eroi nazionali. La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 avrebbe poi dato una risposta a questo bisogno di giustizia che non poteva limitarsi entro i confini di uno stato.
L’epilogo di Norimberga era stato necessario per Calamandrei, perché aveva fatto prevalere «le leggi universali decretate dai gemiti e dalle invocazioni dei milioni di martirizzati innocenti! Le leggi non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone».
Nella «funebre aula di Norimberga», concludeva, «l’umanità, da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico». Le Carte costituzionali nate dopo la II guerra mondiale hanno positivizzato questi diritti fondamentali, coniugando le leggi di Antigone con la sacralità laica del costituzionalismo.
Prendendo spunto dagli scritti di Hannah Arendt sulla filosofia politica di Kant, Lo Giudice mette in relazione il giudizio giuridico con il giudizio riflettente, che incontriamo nell’ultima delle Critiche kantiane. Kant distingue il giudizio determinante, in cui il particolare è sussunto nell’universale, dal giudizio riflettente, che caratterizza l’ambito estetico, in cui il particolare rinvia a un universale che non è dato, come avviene nella conoscenza scientifica, ma è cercato.
La giustizia starebbe allora al giudizio giuridico come la bellezza sta al giudizio estetico. Il diritto è dunque proteso verso l’ideale regolativo della giustizia senza tuttavia identificarsi con essa. Giustizia e bellezza sarebbero così accomunate dal fatto che ad esse possiamo solo approssimarci, dal momento che sono inaccessibili nella loro assolutezza.
Al giudice non è dato conoscere ciò che Carnelutti chiama il senso del tutto entro cui poter valutare i fatti con piena certezza. Il giudizio coincide allora con la capacità di seguire il sensus communis di Kant, inteso non come la semplice opinione diffusa ma come la capacità di giudicare tenendo conto, come si legge nella Critica del giudizio, «del modo di rappresentare di tutti gli altri». Solo in tale prospettiva, ponendosi al di sopra di ogni particolarismo, si può elaborare un giudizio condiviso sulla base di un sentimento comune e di una universale comunicabilità.
Lo Giudice compie diverse incursioni nella letteratura che si è confrontata con questi temi, da Edgar Lee Masters a Kafka e a Calvino, ma il testo emblematico è certamente rappresentato dall’Orestea di Eschilo, in cui assistiamo alla nascita del tribunale e del processo. Qui si scontrano le istanze di giustizia di Oreste, di Clitennestra, di Egisto: «Dike contro Dike», leggiamo al verso 461 delle Coefore, in cui emerge lo spirito della cultura giuridica dell’occidente.
La questione non può essere risolta adottando i criteri del sillogismo, che identifica nella norma la premessa maggiore, nell’azione sottoposta a giudizio la premessa minore, e nell’assoluzione o nella condanna la conclusione.
L’ambito del giudizio è estraneo infatti alla rigidità della logica sillogistica proprio perché, come pensava Giuseppe Capograssi, è pressoché impossibile far rivivere nel processo gli eventi del passato. Bisogna inoltre tener conto dell’incidenza delle convinzioni personali e dei condizionamenti sociali, che sarebbe velleitario pensare di ignorare radicalmente.
Le contraddizioni affiorano nel momento in cui bisogna mantenere la terzietà, cercando, al tempo stesso, di mettersi nelle vesti dell'altro. Ecco perché, Leonardo Sciascia, attento osservatore di questo tragico conflitto, poteva scrivere che quando i giudici, in uno stato di diritto, godono del loro potere invece di soffrirne, la società che li ha delegati a esercitare quel potere è costretta inevitabilmente a giudicarli.
Nell’azione drammatica del processo facciamo esperienza dei limiti che la ragione umana incontra quando vuole cercare una verità fra eventi talora indecifrabili. Tutto ciò richiede saggezza, piuttosto che rigore sillogistico, un rigore che oggi sembrerebbe appartenere agli algoritmi, e che risulta inadeguato in sede di giudizio. Nella logica binaria troverebbero infatti una difficile collocazione quelle zone grigie in cui si muove il giudizio, incerto e fallibile proprio in quanto incarna il senso della nostra costitutiva finitezza.
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