Camminare per le strade inglesi, a quei tempi, poteva rivelarsi assai pericoloso, specialmente se eri un immigrato africano, asiatico, caraibico, un antifascista o un esponente del Gay Liberation Front.

Lungo le vie dei quartieri più popolari di Londra come di Bristol, Birmingham, Leeds, poteva infatti scoppiare all’improvviso una rivolta urbana e tu, arrivato molti anni prima da una delle colonie del Commonwealth con l’obiettivo di migliorare le tue condizioni di vita, rischiavi di stramazzare a terra massacrato di botte oppure, se eri più fortunato, di essere fermato e perquisito, brutalmente malmenato e, infine, arrestato.

Cinquant’anni fa non era affatto raro che i cortei di neonazisti del National Front – poi confluiti nel British National Party di John Tyndall –, gli squadroni “punitivi” degli skinheads della destra radicale o le cariche ostili della polizia metropolitana, con tanto di cani e gas lacrimogeni, irrompessero in qualsiasi momento nei luoghi dove scorreva la vita quotidiana delle comunità di immigrati o nelle manifestazioni pacifiste, trasformando strade, quartieri e periferie in campi di battaglia.

Ciò che è accaduto al carnevale di Notting Hill nel 1976, a Brixton o a Toxthet, un sobborgo di Liverpool, nel 1981, ma anche in molte altre città tra la fine degli anni Sessanta e i “favolosi” Ottanta è ancora oggi un peso che comprime la coscienza britannica.

Il decennio più duro per l’Inghilterra, quello dei Settanta, era un groviglio inestricabile di problemi. C’era la crisi economica, la perdita di competitività nel settore industriale e un livello di disoccupazione altissimo: un continuum di scioperi aveva persino interrotto l’erogazione dei servizi essenziali. Il razzismo, poi, era diventato apertamente istituzionale (è storia il “discorso dei fiumi di sangue” pronunciato nel 1968 dal deputato conservatore Enoch Powell) e le città, via via sempre più svuotate, si erano ormai trasformate in inquietanti ghost towns.

Le classi più indigenti e le comunità black e delle West Indies, soprattutto, erano costrette a vivere in contesti simili a ghetti, dove il degrado e la criminalità imperavano e dove la rabbia della working class bianca era il brodo di coltura perfetto per il National Front.

Questo accumulo di tensioni, di paure, di disperazioni era una bomba pronta ad esplodere.

I The Specials

A farsi impetuosamente (ma pacificamente) avanti era stata, a quel punto, la musica. Alla fine del 1976, dopo le durissime parole di Eric Clapton nei confronti degli immigrati  – «Ci sono troppi stranieri in Gran Bretagna, io non li voglio nella mia stanza e nel mio paese. Penso che dovremmo votare per Enoch Powell», aveva detto in un concerto a Birmingham – un gruppo di artisti e attivisti del circuito punkrock e antifa aveva dato vita a Rock Against the Racism (Rar), un movimento giovane ed energico che insieme alla “collegata” Lega Anti Nazi, puntava a unire “bianchi” e “neri”, il punk con il reggae, attraverso concerti, la diffusione di fanzine e la creazione di spazi artistici e contro-culturali in tutta la Gran Bretagna.
Come scriverà nel 2010 il giornalista Andy McSmith: «C’era più politica nella musica popolare britannica e più attivismo politico da parte dei suoi artisti che in qualsiasi altro momento della storia, prima o dopo».

Ispirato dal Rar, nel 1978 un musicista un po’ pazzoide di Coventry (area di Birmingham), Jerry Dammers, aveva messo in piedi un gruppo composto da musicisti bianchi e neri che suonavano una miscela originalissima di punk, reggae e ska giamaicano degli anni Sessanta. La band si chiamava Coventry Automatics ma nel giro di poco avrebbe mutato il proprio nome in The Specials.

Erano in sette, compreso Dammers; tre di loro erano figli di immigrati o essi stessi immigrati dalla Giamaica o da Cuba e condividevano un obiettivo: dare voce ai diseredati e la sveglia alla Middle class.

Indossavano completi su misura in stile gangster, cravatta, cappello pork pie e calzavano mocassini. Incarnavano alla perfezione, insomma, la figura del rude boy. Erano un collettivo ma il pubblico li percepiva come un’affascinante gang.

Innamorato del tessuto cangiante con cui negli anni Sessanta si confezionavano le giacche che indossavano i Mods, il two tone appunto, il poliedrico Dammers aveva inoltre creato una propria etichetta, la 2 Tone Records, che ambiva a far diventare una “moderna Motown”.

L’etichetta

E proprio gli impareggiabili anni della 2 Tone sono al centro di un volume da poco uscito nel Regno Unito intitolato Too Much Too Young. Rude Boys, Racism and the Soundtrack of a Generation (White Rabbit, 540 pagine). Scritto da Daniel Rachel, ex cantante, chitarrista e rude boy di Birmingham oggi autore di successo, il libro contiene un’imponente quantità di informazioni, curiosità, interviste (oltre un centinaio, ai protagonisti principali) e retroscena sul più innovativo movimento musicale della storia britannica.

La 2 Tone era esplosa nel 1979, poco dopo l’elezione di Margaret Thatcher a primo ministro, con un singolo interamente “made in Coventry” che univa la denuncia sociale con la cultura della dancehall.
Il lato A era occupato dagli Specials con Gangster, tributo a Prince Buster, il lato B (o meglio, il doppio lato A) dall’altra band multietnica, The Selecter, fondati da Pauline Black. In entrambe le facciate, caratterizzate dal pattern bianco e nero, campeggiava la figura stilizzata del rude boy Walt Jabsco, l’iconico logo della label.

Dopo la firma con la Chrysalis Records erano usciti i 7” di altre giovani band, tra le quali i Madness, insieme a una manciata di album a dir poco dirompenti: The Specials, prodotto da Elvis Costello, Too Much Pressure dei Selecter, More Specials nell’anno seguente.

Ghost Town, con la sua celebre strofa «This town is coming like a ghost town», era arrivata nel 1981; a dispetto dell’angoscia di cui era intrisa, la canzone aveva scalato le classifiche del Regno Unito portando gli Specials ad esibirsi anche a Top of the Pops.

Le band non vogliono più suonare, troppi combattimenti sul dancefloor, cantavano Terry Hall e Neville Staple, riferendosi alle violenze che in Inghilterra ormai accompagnavano anche la musica dal vivo. Le loro liriche raccontavano la vita dei giovani proletari in un paese al collasso, la disoccupazione, i conflitti sociali e razziali, le città fantasma, la deindustrializzazione, le gravidanze adolescenziali, le frustrazioni e le ingiustizie che travolgevano le persone.

L’eredità della rivolta

Tuttavia Ghost Town non è stata semplicemente una canzone di successo: è stata la colonna sonora delle rivolte che in quei mesi stavano infiammando le strade inglesi e, al contempo, il requiem per gli stessi Specials. Ed è stato anche l’inizio della fine per l’etichetta, che cesserà definitivamente di esistere nel 1986.

«La 2 Tone ci ha lasciato però un’eredità importante: la sua musica», ci spiega Daniel Rachel. «I dischi hanno un suono fantastico, molte delle canzoni sono ancora attuali. I Madness, per esempio, sono apparsi alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi, hanno suonato sul tetto di Buckingham Palace e pochi mesi fa sono tornati ad occupare il primo posto della Uk Chart con un nuovo album. Anche gli Specials in tempi recenti sono tornati in cima alla classifica».

Insieme alla musica, continua Rachel, il messaggio sociopolitico e l’impegno antirazzista, per l’uguaglianza e la libertà «hanno permesso alla generazione tra gli anni Settanta e Ottanta di compiere un enorme salto in avanti».
A quell’epoca, tra le subculture giovanili la forma era anche sostanza e la musica era indissolubilmente legata alla moda: «Oggi, invece, quei gruppi tribali sono una minoranza e musica e fashion non si compenetrano più. Il mondo è cambiato, la gioventù è cambiata», conclude, «ma sono sicuro che il ciclo muterà di nuovo e le nuove generazioni torneranno ad essere ispirate da un gruppo che definirà la loro epoca e la loro cultura».


Too Much Too Young: The 2 Tone Records Story: Rude Boys, Racism and the Soundtrack of a Generation (White Rabbit, pp. 544)  è un libro di Daniel Rachel 

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