- Un rider sceglie “liberamente” di lavorare a ritmi disumani? O è un’imposizione subdola del neocapitalismo che non garantisce più la libertà del singolo ma solo quella del mercato?
- Una risposta (affermativa) a questa seconda domanda si trova nella riflessione attorno a cui ruota il recente saggio di Valentina Pazé, Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato
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Nel libro si mette in luce la disfunzione cognitiva che ci fa identificare ciò che è liberamente scelto con ciò che è giusto, senza riconoscere le relazioni di sfruttamento travestite da accordi tra soggetti liberi e consenzienti
Cosa accomuna il rider che sfreccia da un capo all’altro della città per portarci un hamburger prima che si freddi e un dipendente di un’agenzia di consulenza che passa 13 ore al giorno sei giorni su sette in ufficio?
È semplice: entrambi lavorano per target. Una volta si sarebbe detto “a cottimo”: vengono retribuiti in proporzione alla quantità della prestazione fornita. Non solo, sono entrambe scelte consenzienti: nessuno li costringe a quei ritmi disumani; sono loro che “liberamente” lo scelgono. Sono, come si dice oggi, “i capi di sé stessi”. Potremmo dire, con un gergo vecchio ma sempre funzionale: hanno introiettato i loro padroni.
Una coercizione che, se venisse loro inflitta da qualcun altro, non sarebbe consentita, ma che diventa legittima se viene inflitta a sé stessi. È il culmine della libertà individuale, questo, o il capolavoro del neocapitalismo? Siamo entrati nell’epoca dell’autosfruttamento?
Consenso e sfruttamento
A leggere il nuovo libro di Valentina Pazé, Libertà in vendita, verrebbe da rispondere di sì: al centro del suo saggio c’è l’idea di una democrazia che, isolando il diritto alla libera scelta e ricontestualizzandolo a modo suo, non garantisce più la libertà del singolo ma solo la libertà del mercato.
Per una curiosa disfunzione cognitiva che ci fa identificare ciò che è liberamente scelto con ciò che è giusto, tendiamo a non riconoscere relazioni di sfruttamento quando si travestono da accordi tra soggetti liberi e consenzienti. La libertà del consenso è fondamentale, ma bisogna poi accordarsi su quanto genuino sia davvero quel consenso. Valutare se esso avviene su pressioni economiche, culturali, personali che inquinano la presunta autonomia.
Sappiamo che spesso questo non accade: una vigilanza, su questi temi, manca clamorosamente. Una democrazia oggi, in una società che divarica vertiginosamente le sue diseguaglianze, non può non interrogarsi su questo.
Esercizio di forza
La libertà rischia di diventare non una condizione di partenza comune, ma una merce: e per giunta ad altissimo costo. Non tutti possono permettersi una libertà, così come – per dirla con Brecht – non tutti possono permettersi una morale. È il paradosso della nostra epoca: concede il massimo di libertà possibile, ma solo a chi se la può permettere. Il destino, così come lo intendevano i greci, quella necessità ferrea per cui tutto ciò che doveva accadere alla fine accade, ritorna oggi in forme più subdole: chi può, diventa ciò che vuole; e chi non può diventa ciò che deve.
Scrive Pazé: «Oggi il destino si risolve nella lotteria naturale della nascita». Tutto questo in una società democratica, che continuamente comunica ai giovani un messaggio tanto ideale quanto ipocrita: «Diventa ciò che vuoi». Far passare come accessibile a tutti un bene concesso solo a pochi è un errore tragico: puro veleno generazionale.
Sfruttamento democratico
C’è, ed è molto concreto, il rischio che la libertà diventi solo libertà di esercitare o subire la forza. E che la democrazia liberale finisca col rappresentare niente più che il vigile urbano di questi rapporti. O ancora peggio: che la libertà democratica diventi il dispositivo di legittimazione dello sfruttamento, il trucco con cui il capitalismo rende legittimi certi suoi stupri.
Nessuno vuole che la democrazia diventi il preservativo dello sfruttamento sociale, uno strumento nelle mani del più forte. Ma è questo che in parte già accade. Nell’indifferenza generale, rinascono qua e là forme di schiavismo perfettamente legali in quanto vincolate a un “libero consenso”.
Se decidiamo che è libertà ogni incontro fra domanda e offerta, allora presto dovremo cominciare a ritenere accettabili transazioni che (per fortuna) oggi non lo sono ancora: vendita del voto o di organi del corpo umano; rinuncia alle ferie o alla sicurezza sul lavoro o al congedo di maternità in cambio di compensazioni economiche. Sono scambi che nella maggior parte degli ordinamenti moderni sono ancora vietati.
Tuttavia, vediamo intorno a noi continue forzature di questi criteri: delivery, trasporti, prostituzione online, intere economie di servizi fondate sullo sfruttamento del sé, mentre dall’altro lato i costi della vita e il mercato immobiliare sempre in aumento olia i meccanismi del ricatto. Il mercato non è – come qualcuno ancora si ostina a far credere – il paradiso della libertà.
Anzi: quando il concetto di libertà incontra il mercato, può generare mostri. Nessuno che oggi tenga alla democrazia può permettersi di ignorare questi aspetti. La democrazia oggi ha più che mai bisogno di verificare i suoi fondamenti alla luce di un capitalismo che sta rapidamente estremizzando e brutalizzando i suoi rapporti di potere.
Un laboratorio essenziale
Valentina Pazé sarà presente a Torino, nella Biennale Democrazia dal 22 al 26 marzo. Non potrebbe esserci contesto più adeguato. La Biennale Democrazia – un luogo culturale di eccellenza, ideato e diretto da Gustavo Zagrebelsky – si svolge da diversi anni, ed è un appuntamento felice, perché non funziona come una vetrina ma come un laboratorio, dove ci si dà l’occasione di verificare lo stato di salute di una democrazia che, lungi dall’essere qualcosa di eterno e immutabile, necessita di un lavorio continuo. La Biennale Democrazia è uno di quei luoghi dove avviene questa preziosa, costante manutenzione.
Sarà presente a Torino anche David Wengrow, il celebre archeologo autore – insieme a David Graeber – di L’alba di tutto. Wengrow è l’anti-Harari per eccellenza, famoso per la sua tesi sul “socialismo delle civiltà primitive”. Sostiene, Wengrow, che il mondo premoderno ha vissuto per ben quattromila anni esperienze di realtà autogestite: strutture politiche arcaicamente egualitarie, di condivisione orizzontale del potere, prive di rigide gerarchie e di dominio di classi economiche, militari o sacerdotali.
Fin dalla scuola s’insegna a far coincidere l’inizio della civiltà con l’inizio delle gerarchie: a pensare che il nostro modello sociale sia l’esito di un’evoluzione indispensabile, il migliore dei mondi possibili, e che la violenza insita nei rapporti di forza sia il prezzo necessario per evitare il caos. Non è così. Wengrow ha dimostrato il contrario: ritrovamenti in medio oriente, in Africa, nell’America precolombiana mostrano che altre opzioni esistono, e sono esistite fin dall’inizio – civiltà senza strutture di potere top-down, prive di rigide gerarchie di classe, coordinate tramite modelli assembleari e distributivi.
Se questo modello è stato possibile in società semiprimitive, dentro economie fondate su agricoltura e allevamento, non potrebbe esserlo tanto più oggi, in presenza di uno straordinario patrimonio scientifico e tecnologico?
La democrazia è un ideale in continua mutazione e perfezionamento: e chissà che certi suoi sviluppi non possano venire non solo dai sogni del futuro, ma anche dai tentativi del passato?
Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (Bollari Boringhieri 2023, pp. 192, euro 16) è un libro di Valentina Pazé
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