- Il Mart di Trento e Rovereto dedica una mostra ai dipinti di Julius Evola.
- Nell’introduzione al catalogo Vittorio Sgarbi, presidente del Mart, scrive che su Evola, pensatore molto amato nei circoli della destra esoterica, grava una damnatio memoriae che avrebbe impedito di coglierne il reale valore.
- Ma è davvero così? A questa mostra va dato il merito di dimostrare che Evola non è stato presto dimenticato, come pittore, per le sue idee, ma semplicemente perché è stato un pittore modesto.
Il Mart di Trento e Rovereto dedica una mostra ai dipinti di Julius Evola. Nell’introduzione al catalogo Vittorio Sgarbi, presidente del Mart, scrive che su Evola, pensatore molto amato nei circoli della destra esoterica, grava una damnatio memoriae che avrebbe impedito di coglierne il reale valore. Ma è davvero così? È inoltre opportuno porre le sue tele e il suo pensiero sullo stesso piano dell’opera di Vasilij Kandinskij e intitolare la mostra Lo spirituale nell’arte, citando il titolo della celebre opera dell’artista russo?
La storia del pensiero e dell’arte del primo Novecento è costellata di figure che hanno subito il fascino dei totalitarismi, per convinzione o per opportunismo. Ciò non ha impedito a quanti hanno aderito ai fascismi di essere egualmente apprezzati, come è accaduto per Sironi (ma non poteva accadere per Arno Breker, lo scultore di Hitler, o per Adolf Ziegler, pittore caro a Hitler), e com’è accaduto per Heidegger (ma non poteva accadere per Alfred Rosenberg, il filosofo che in Il mito del XX secolo teorizzava l’antisemitismo e la supremazia ariana).
La convinta adesione al fascismo da parte di Terragni non scalfisce minimamente l’importanza delle sue realizzazioni e delle sue teorie nell’ambito dell’architettura e dell’urbanistica del Novecento. Le sue opere si pongono accanto alle più alte espressioni del razionalismo, dialogando con Gropius come con Mies o con Le Corbusier, altra figura su cui si è discusso riguardo alle sue simpatie verso il nazismo e verso la Repubblica di Vichy.
L’opera di Le Corbusier è stata e continua a essere apprezzata al di là del giudizio sulle sue scelte politiche. Ancora: il dichiarato entusiasmo giovanile per Hitler, che aveva ascoltato a Weimar, non ha impedito a Ingmar Bergman di essere considerato un maestro indiscusso.
Perché allora dovrebbe esserci su Evola una damnatio memoriae? A questa mostra va dato il merito di dimostrare che Evola non è stato presto dimenticato, come pittore, per le sue idee, ma semplicemente perché è stato un pittore modesto. Confrontandosi con le avanguardie, ha presto compreso che quanto i suoi compagni di strada cercavano non rientrava nella sua concezione del mondo. Diversamente, come quelli di Emil Nolde, i suoi dipinti sarebbero tenuti in buon conto.
Tuttavia, indiscutibilmente, si possono individuare delle assonanze tra la produzione artistica di Evola e il clima che caratterizzò le avanguardie, molti protagonisti delle quali furono attratti, come lui, dalla teosofia, dall’alchimia, dall’occultismo e da frequenti richiami ai saperi e alle pratiche esoteriche. La tensione spirituale di Kandinskij, come di Mondrian, solo per citare due esempi, non conduceva però a un rifiuto radicale della modernità, come accadde in Evola.
Un brontolio sotterraneo
In un suo saggio del 1927 dal titolo Alcune nozioni sull’arte sintetica Kandinskij scriveva che l’Ottocento era stato caratterizzato dall’ordine, «realizzato sulla base della separazione, della divisione», delle alternative rigide, come dimostra l’attenzione che era riservata all’esperto e allo specialista. Tutto si traduceva in una prevalenza dell’aut-aut, che continuava a manifestarsi anche agli inizi del nuovo secolo. Kandinskij avvertiva però un «brontolio sotterraneo» che rispetto all’ordine ottocentesco poteva far pensare al caos. In questa nuova condizione, all’aut-aut si stava gradualmente sostituendo un atteggiamento nuovo, perché, scriveva, «il XX secolo sta sotto il segno dell’e», cioè della congiunzione e non dell’opposizione netta.
Ecco perché le tesi metafisiche che stavano alla base del lavoro di Kandinskij non gli impedivano di partecipare attivamente all’esperienza della Bauhaus, in cui le distinzioni tradizionali si annullavano. Le barriere tra arte, artigianato e disegno industriale crollavano, e le gerarchie consolidate cedevano il passo a un dialogo proficuo tra pratiche e saperi diversi. Il riferimento alle tecniche tradizionali non veniva dunque contrapposto al design, ma era ripensato entro gli orizzonti della modernità.
La riproduzione in serie di un oggetto, concepito in un ambiente in cui collaboravano figure come Gropius e Mies, Kandinskij e Klee, Breuer e Albers poteva rendere possibile all’uomo comune di accostarsi quotidianamente alla bellezza, prerogativa un tempo riservata solo ai ceti privilegiati, che potevano disporre di pezzi unici, concepiti esclusivamente per loro. Lo Spirituale cui aspirava non impediva dunque a Kandinskij di collaborare a un progetto che si proponeva di “democratizzare” il rapporto con la bellezza. Nel manifesto della Bauhaus del 1919 si afferma infatti che non v’è alcuna differenza tra l’artista e l’artigiano in una comunità di artefici che non tollera le distinzioni di classe.
Il sociologo Ulrich Beck ha messo in luce come proprio il saggio di Kandinskij, contrapponendo all’aut-aut ottocentesco l’et-et del XX secolo, in cui si assiste allo sgretolarsi delle barriere fra i diversi ambiti disciplinari, lasci emergere la complessità del mondo, l’incertezza, l’indeterminatezza. Quando i confini sfumano, anche le certezze categoriche vacillano, lasciando spazio al dubbio: le gerarchie non trovano più una adeguata legittimazione.
Estraneità
Quello che Kandinskij aveva intuito e che non era chiaramente espresso agli inizi del Novecento, apparve poi, in tutta la sua evidenza, nella generazione a lui successiva. Lo Spirituale di Kandinskij mette in discussione tanti aspetti dell’Età moderna, ma contribuisce al tempo stesso a elaborare quella “Modernità riflessiva” che, secondo Beck, si pone al là delle solide certezze che hanno segnato il corso della storia, dalla Rivoluzione industriale in poi. Nel 1923 in un breve testo, Ieri, oggi, domani, Kandinskij sosteneva che le antitesi analitico\sintetico, materialismo\spiritualismo, metodo intuitivo\metodo teorico, apparentemente escludentesi, conducono a una sola meta. Ecco perché considerava al tramonto il tempo dell’aut-aut.
Tanto basta a comprendere perché, nonostante Evola abbia intrattenuto diverse relazioni nell’ambito della ricerca artistica del primo Novecento, come dimostrano i suoi apporti con Tristan Tzara, Jean Arp, Max Ernst, Edgar Varèse e altri, la sua figura appare, a conti fatti, estranea a quel mondo. Se ne allontanò infatti nel timore che la fluidità di quel clima culturale portasse con sé quegli esiti nichilistici contro cui voleva combattere per affermare i valori metastorici in cui si riconosceva. Il suo distacco dal Futurismo fu legato all’esigenza di elaborare una forma di astrattismo mistico che lo coinvolse profondamente negli anni che vanno dal 1915 al 1921.
La tensione spirituale che animava le avanguardie esprimeva anche una forma di rifiuto nei confronti dell’arte accademica e delle istituzioni culturali e politiche. La tendenza di Evola a orientarsi verso i modelli tradizionali alternativi alla modernità dovette gradualmente farlo sentire estraneo a quegli ambienti. Basti pensare che nel 1921, anno in cui Evola abbandona la pittura, Klee inizia il suo insegnamento alla Bauhaus, dove lo raggiungerà Kandinskij nel ’22. Ci appare naturale pensare Kandinskij e Klee a Dessau, nella sede della Bauhaus, dove condividevano uno degli edifici progettati da Gropius per i maestri della scuola. Evola apparirebbe invece fuori posto in quel luogo-simbolo del modernismo e potremmo forse pensarlo più a suo agio nella nuova Berlino immaginata da Hitler e Speer.
Nel corso del tempo il distacco di Evola dal modernismo diviene radicale. Lo dimostra ampiamente la sua prefazione alla traduzione italiana de I protocolli dei savi anziani di Sion, del 1938. Si tratta, com’è noto di un falso storico che tra il 1903 e il 1905 la polizia zarista elaborò per dimostrare che era in atto una congiura internazionale finalizzata a realizzare un dominio mondiale della finanza ebraica. Nonostante venisse presto dimostrata l’inautenticità del documento, sappiamo quanto abbia influito e influisca ancora, nelle sue perverse varianti, nell’ambito delle paranoiche teorie del complotto. Nella sua prefazione, dopo aver denunciato la funzione “distruttrice” dell’ebraismo, attaccando Freud, Einstein, «col quale è venuto a moda il relativismo» (sic!), Lombroso, il “mezzo-ebreo” Debussy, Schönberg e Malher, Evola si scaglia proprio contro Tzara, definendolo «limite estremo della disgregazione della cosiddetta arte d’avanguardia».
Barbarie bolscevico-americana
Dinnanzi a queste posizioni non si può non prendere atto dell’impianto antimoderno dell’opera di Evola, rivendicato in modo evidente nella prefazione alla prima edizione di Rivolta contro il mondo moderno, del 1934. Qui Evola dichiara il carattere “reazionario” delle sue teorie, concepite come «difesa di valori di virile spiritualità, di dignità aristocratica, di impero». Il mondo del passato, e la Tradizione, con la “T” maiuscola, intesa come una realtà atemporale sottratta alle miserie del presente, diviene così il più sicuro punto di riferimento per contrapporsi alla «barbarie bolscevico-americana», al livellamento materialistico «della plebe scettrata e coronata e del razionalismo e umanismo della cultura profana dei tempi ultimi».
In questa direzione Evola ritiene di combattere contro gli stessi nemici individuati dal fascismo, che si proponeva di dare nuova vita ai simboli dell’antica romanità e ai valori di «una civiltà virile e sacrale, gerarchica e veramente universale». Il linguaggio esoterico, presente in ogni suo testo, privilegia il principio di autorità sulle argomentazioni razionali. Negli ambienti in cui il suo pensiero è accolto, l’approccio iniziatico prevale di solito sulle valutazioni critiche. L’aura che avvolge alcune considerazioni sulla gerarchia o sulla “Tradizione” attribuisce un valore sacrale a concetti che non reggerebbero a un confronto alieno da fascinazioni fideistiche.
Non stupisce allora che un autore ostile alla modernità e ai modelli culturali e politici occidentali, come Aleksandr Dugin, il filosofo russo che alimenta in questo momento le mire aggressive di Putin, guardi con interesse a Guénon e a Evola.
Nella prefazione all’edizione italiana de La quarta teoria politica, del 2017, nel quadro dell’attuale crociata postsovietica contro l’Occidente, Dugin individua infatti, in entrambi, le figure fondamentali della posizione conservatrice nel Novecento, in quanto hanno descritto il carattere sovratemporale della società tradizionale contrapponendola alla modernità, intesa come caduta e degenerazione di ogni struttura gerarchica.
Sostiene infatti che Guénon ed Evola si proponevano di restaurare quei valori premoderni contro cui gli uomini rinascimentali, gli illuministi e i liberali si sono battuti per difendere la libertà individuale. Si opponevano però al comunismo, scrive Dugin, «non comprendendo quanto di tradizionale vi fosse in esso». Per Dugin, infatti, il comunismo, come il pensiero di destra tradizionalista, hanno un nemico comune nell’individualismo e nella liberaldemocrazia. Il richiamo alla “Tradizione”, intesa come una realtà che si sottrae alle contingenze della storia, può contribuire, in questo clima, a perpetuare in modi diversi, nella Russia postsovietica, quel dispotismo prima legittimato dall’ideologia.
Guénon ed Evola, il mito della Grande Madre Russia e della Terza Roma, possono allora essere utili per alimentare il dispotismo. Prevale così una visione organica dello stato, in cui la libertà individuale si annulla, come avviene quando il singolo si riconosce pienamente in una verità tradizionale nella quale da sempre è fatalmente collocato. Questi temi, presenti nel dibattito politico dei nostri giorni, ci fanno comprendere quanto utile in certi ambienti possa essere rivalutare il pensiero di Evola attribuendo anche una rilevante importanza alla sua discutibile produzione artistica.
Giorgio Almirante definiva Evola «Il nostro Marcuse, ma più bravo», ravvisando nella critica evoliana alla società di massa delle consonanze con la Scuola di Francoforte. Per la destra “esoterica” italiana, precisava tuttavia Furio Jesi, il germanista precocemente scomparso nel 1980, attento studioso della Cultura di destra, Evola non era affatto il Marcuse italiano. Era, semmai un man of knowledge nel senso dato a questa espressione da Carlos Castaneda, cioè uno “stregone”, una alternativa a quel sistema di cui in qualche modo i francofortesi e Marcuse erano considerati espressione.
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